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     n. 8 anno 2024

La Corte Costituzionale interviene ancora sul Jobs Act

di Marcello Floris

di Marcello Floris

Con la sentenza del 22 febbraio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, del D. Lgs. n. 23/2015, limitatamente alla parola “espressamente”. Per questo motivo la disposizione è stata ritenuta illegittima nella parte in cui, riconosce la tutela tramite reintegrazione nel posto di lavoro, nei casi di nullità, previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti – dal 7 marzo 2015 – ma la limitava alle nullità sancite “espressamente”. 

Prima della sentenza 22/2024
Prima della sentenza citata, originariamente, secondo il D. Lgs. n. 23/2015 la reintegrazione restava in vigore per:

i licenziamenti discriminatori;

i licenziamenti nulli per espressa previsione di legge;

i licenziamenti orali;

i licenziamenti in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore;

i licenziamenti disciplinari in relazione ai quali sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Ipotesi in cui al lavoratore spetta l’ indennizzo economico
Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato, per giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).

Ai sensi dell’art. 10, il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 6 e 36 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (cfr. art. 4, co. 12, Legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, Legge 223 del 1991).

Al lavoratore spetta solo un indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori .

In questi casi, l’indennità è dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.

La sentenza 22/2024
In questo quadro è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale.
La Corte di Cassazione, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale, ha censurato la  limitazione della espressa sanzione di nullità in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, secondo cui l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. La Cassazione aveva appunto rilevato la violazione del criterio di delega fissato per il Jobs Act, deducendo che l’esclusione delle nullità, diverse da quelle espresse, non trova rispondenza nella legge di delega, la quale riconosceva invece la tutela data dalla reintegrazione in tutti i casi di licenziamenti nulli, senza distinzione alcuna. 

La Corte Costituzionale ha appunto ritenuto fondata la censura ed ha osservato che, nella legge delega, ai fini del riconoscimento della tutela reintegratoria, è ravvisabile solo un riferimento ai licenziamenti disciplinari nulli, senza che ciò possa portare ad una distinzione tra nullità espresse e nullità non espresse. 

Secondo la Corte, così facendo, il legislatore non solo ha operato andando oltre la delega, ma ha anche creato un vuoto, lasciando privi di specifica disciplina i casi di licenziamenti nulli, per violazione di norme imperative, ma non espressamente sanzionati con nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante. 

In pratica, quindi, a seguito di tale sentenza, deriva che il regime sanzionatorio per il licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

Fattispecie su cui la sentenza può avere impatto 
La decisione della Corte può incidere su una serie di situazioni quali:

  • licenziamento in periodo di comporto per malattia (in violazione dell’art. 2110, co. 2, cod. civ.); in cui l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro decorso il periodo di tempo stabilito dalla legge
  • licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ., quale ad esempio quello ritorsivo del dipendente (il cd. whistle blower), che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro: peraltro, attualmente gli artt. 17, co. 4, e 19, co. 3, del D.Lgs. 10 marzo 2023, n. 24, stabiliscono espressamente la nullità di questo tipo di recesso;
  • licenziamento intimato in violazione del blocco dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale, ex art. 46 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del SSN e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, e successive proroghe;
  • licenziamento in contrasto con l’art. 4, co. 1, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali);
  • licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di cui all’art. 124, co. 1, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

 

avv. Marcello Floris
Partner, Co - Head Employment and Pensions (Italy), Eversheds Sutherland

 

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