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     n. 8 anno 2024

Anche le pratiche di DE & I devono essere «evidence-based»

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Non è facile districarsi tra concetti che usiamo comunemente seppur, inutile nasconderlo, con qualche disagio. Nelle organizzazioni e nelle imprese, per esempio, viene ormai naturale parlare di diversità, equità e inclusione (DE & I), attorno a queste categorie infatti si costruiscono obiettivi e programmi talvolta anche complessi. Diversità, equità e inclusione prendono forma e sono articolate così in numerose iniziative dotate qualche volta di indicatori, per misurarne l’effetto, che sono resi pubblici nei siti delle aziende, in convegni e seminari, punto di partenza per valutazioni di analisti e ricercatori.
Il disagio emerge non appena ci si interroghi sull’effettivo significato di questi termini e su cosa li differenzi l’uno dall’altro, un’indagine questa che renderà evidente la diversità di senso attribuito agli stessi e le differenti prospettive utilizzate per declinarli in azioni concrete.
Tuttavia, c’è un punto di partenza comune che va sottolineato, ossia la crescente consapevolezza riguardo la necessità che un ambiente di lavoro sia inclusivo per valorizzare diversità e innovazione.  Se si coltiva però l’idea di poter andare oltre e più in profondità mantenendo lo stesso livello di convergenza si rischia di rimanere delusi. Sono queste almeno le convinzioni cui è giunto un gruppo di lavoro indipendente (Inclusion at Work), promosso dal governo del Regno Unito, affidate alle interessanti pagine di un recente rapporto.
In realtà, si legge in un articolo sul Wall Street Journal del 26 marzo scorso che riprende alcuni passaggi del documento, è difficile dire con chiarezza cosa significhino i termini diversità, inclusione, equità perché ambigui e spesso confusi. Per fare un esempio, cosa significa equità e cosa uguaglianza? Per rendersi conto di questo basta mettere a confronto proprio la definizione di “inclusione”, un concetto meno empirico di “diversità”, proposta da due autorevoli istituti di ricerca, il CIDP (Chartered Institute of Personnel Development) e il CMI (Chartered Management Institute) che riporto nella tabella:

CIDP CMI
[L’inclusione è] “la pratica di includere le persone in un modo che sia equo per tutti, valorizzi le differenze di ognuno e autorizzi e consenta a ciascuna persona di essere sè stessa, di raggiungere il proprio pieno potenziale e di prosperare sul lavoro”. [L’inclusione è] “in definitiva, attrarre e liberare talenti, raccogliere prospettive diverse per risolvere problemi, creare una cultura collaborativa e guidare l’innovazione”.

Come mettere in pratica questi indirizzi in modo omogeneo essendo gli stessi, si scrive nel rapporto, “astratti e, fondamentalmente, soggettivi”? È evidente allora che il giudizio su ciò che funziona e ciò che non funziona può essere fuorviante, perché azioni e risultati non potranno che essere fortemente condizionati dagli specifici contesti organizzativi nei quali si combinano numerose variabili, a cominciare proprio dal significato che viene attribuito agli stessi termini e dagli indicatori usati per misurarne l’efficacia.
Nel rapporto si legge che «poiché D & I è una scienza sociale, non fisica, la causalità tra interventi e risultati è spesso quasi impossibile da discernere […]».
Occorre fare attenzione però, perché le conclusioni cui giunge il gruppo di lavoro non suggeriscono di abbandonare le pratiche di DE&I, piuttosto invitano, da un lato, a rendere più facile l’accesso ai dati delle esperienze aziendali per migliorare la qualità degli interventi e progredire sui risultati, dall’altro, ad accompagnare le iniziative con misure e indicatori sempre più appropriati. 
In altre parole cogliamo la spinta, rivolta a imprese e organizzazioni, a “mostrare, non raccontare”, a investire più che sulla narrazione di quello che viene fatto, a spiegare e dimostrare piuttosto cosa ha funzionato e farne un patrimonio condiviso. 

Insomma anche le pratiche che vogliono generare “lavoro sostenibile” devono essere «evidence-based» ed essere accompagnate da metriche capaci di mettere in discussione risultati e obiettivi.

 

Gabriele Gabrielli
Coach e consulente è Founder e Ceo di Studio Gabrielli Associati Srl e di People Management Lab S.r.l Società Benefit e BCorp certificata.Ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona ETS, è professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane e People management e reward all’Università Luiss Guido Carli e di Remunerazione e gestione delle risorse umane all’Università Europea di Roma dove è anche co-direttore del Master di 1^ livello in Sustainable HRM. I suoi lavori più recenti sono: Ridisegnare il lavoro, 2022 e Rigenerare la dignità del lavoro, 2023, entrambi per l’editore Franco Angeli. 

 

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