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     n. 8 anno 2023

La conciliazione vita-lavoro: un tema sentito e dibattuto

di Annalisa Rosiello

di Annalisa Rosiello

Il tema della conciliazione vita-lavoro è molto sentito dalle persone. Soprattutto dalle donne più o meno giovani che - in misura percentuale ancora oggi notevolmente superiore agli uomini - si prendono cura dei figli minorenni o disabili e dei familiari (parenti o affini) con disabilità o comunque non completamente autosufficienti.

Queste donne si trovano spesso davanti alla scelta tra famiglia e lavoro.

Nel primo caso la scelta comporta di rinunciare al lavoro e quindi di perdere l’indipendenza economica dal compagno, di togliere risorse necessarie alla famiglia e di compromettere la propria professionalità se non addirittura in via definitiva la propria carriera. Nel secondo caso quella di comprimere notevolmente lo spazio da dedicare alla famiglia, con conseguenti rischi di natura psico-fisica (stress, problemi psicologici innescati da sensi di colpa, ecc.), sociale e persino a conseguenze giudiziarie.

Anche in contesti organizzativi piuttosto ampi non sembra che queste situazioni vengano adeguatamente considerate, come dimostra sia la casistica che arriva agli avvocati che assistono lavoratrici e lavoratori sia dalla giurisprudenza che, sempre più frequentemente, si sta pronunciando su queste tematiche.

Per citarne una per tutte: la sentenza del Tribunale di Ferrara 25 marzo 2019, Bighetti est., a questo proposito, e in applicazione delle fattispecie discriminazione diretta e indiretta. afferma che  trattare in maniera identica agli altri lavoratori con riguardo a orari e turni di lavoro una persona protetta dall’ordinamento da un duplice fattore ovvero in ragione sia della maternità, sia della disabilità della figlia, comporta una discriminazione indiretta, in quanto una decisione del datore di lavoro apparentemente neutra pone la lavoratrice in una situazione di particolare svantaggio. 

La sentenza, tra i vari passaggi e affermazioni di principio estremamente significative, riporta un assunto che ridimensiona, in certi contesti e a determinate condizioni, il potere organizzativo dell’azienda (trattasi di un’azienda della grande distribuzione), in ossequio ai principi costituzionali, alla normativa anti-discriminatoria e ai canoni di correttezza e buona fede. 

In particolare afferma il Tribunale che vi sia un proprio dovere contrattuale da parte del datore di lavoro di “armonizzare” le richieste del personale con le esigenze dell’azienda nella determinazione dell’orario di lavoro. E questo obbligo, prosegue la sentenza, costituendo una specificazione  “degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 della Costituzione, impone al datore di lavoro di venire incontro alle esigenze di una dipendente in difficoltà, ricevendo la prestazione della medesima secondo cadenze tali da non sacrificare in modo apprezzabile l’interesse proprio”.

Questo assunto trova conforto e ancoraggio in molteplici norme, anche di derivazione comunitaria, in primis nel codice pari opportunità (d.lgs. 198/2006 come modificato dalla l. 162/2021) che ha ampliato, o comunque precisato, la nozione di discriminazione indiretta stabilendo che rientrano in tale fattispecie tutti i trattamenti o le modifiche dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, pongono il lavoratore in una posizione di svantaggio o ne limitano le opportunità.

Un regime maggiormente flessibile in termini di turni, orario e modalità di espletamento della prestazione è regolamentato anche dal d.lgs. 105/2022 che ha recepito la direttiva CE 1158/2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare.

Ma in questi casi soccorre anche lo stesso TU salute e sicurezza (art. 28, d.lgs. 81/2008) laddove si prevede che l’oggetto della valutazione dei rischi “deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato … e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza…, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”.  E questo poiché la conciliazione vita-lavoro e le relative difficoltà rischiano di compromettere l’integrità psico-fisica della persona, soprattutto della donna che, come detto, ancor oggi ricopre maggiormente il ruolo di cura di figli e familiari. 

Alla luce dei principi anche di rango costituzionale e della normativa sopra solo sommariamente richiamata, possiamo dunque sostenere che – a condizioni per così dire di ragionevolezza – l’organizzazione del lavoro debba in certe situazioni fare un “passo di lato” rispetto alle primarie esigenze personali, familiari e sociali dei lavoratori e delle lavoratrici e ricercare soluzioni condivise che possano armonizzare tempi e modalità della prestazione con le esigenze familiari e personali.

Diversamente facendo l’azienda rischia di compromettere la dignità, la libertà e la salute della persona e di esporsi a conseguenze risarcitorie legate a contenzioso in materia anti-discriminatoria e di tutela della salute e sicurezza, come abbiamo visto.

 

Annalisa Rosiello – Avvocata giuslavorista in Milano, Fondatrice dello Studio Legale Rosiello e Associati, già Consigliera di Fiducia del Politecnico di Milano, Co-fondatrice del blog area pro-labour de ilfattoquotidiano.it

 

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