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     n. 20 anno 2023

La guerra dei talenti: i “Passion Project” come arma vincente

di Massimo Ramponi

Parafrasando Sun Tzu (L’arte della guerra), le organizzazioni esperte sapranno vincere la guerra dei talenti senza dare battaglia.

Ma esistono queste organizzazioni?

Visto il caos presente sul tema, mi sentirei di abbandonare il pensiero strategico del citato filosofo e generale cinese per fare riferimento ad una celebre frase di Mike Tyson: “Tutti hanno un piano fintanto che non prendono un pugno in faccia”.

Molte organizzazioni si erano fatte dei piani per individuare, valorizzare e trattenere talenti, ma poi sono arrivati i "pugni in faccia": "Great Resignation" e "Quiet Quitting", fenomeni che, seppur spesso travisati o enfatizzati dai media (si sta già parlando di grande rimescolamento), hanno generato panico organizzativo.

Evidentemente molte organizzazioni, sul tema dei talenti, non sono sufficientemente esperte e preparate.

Le errate definizioni dei campi di analisi, dei processi e degli strumenti di intervento inadeguati potrebbero essere individuate come le cause prevalenti delle difficoltà connesse a questa grande sfida organizzativa.

La prima complessità è legata al framing del talento. Nella definizione dei talenti viene utilizzata massivamente la figura retorica della sineddo che (il tutto rappresenta la parte e viceversa): molto spesso ci si riferisce ai talenti pensando alle persone molto performanti o ad alto potenziale, mentre il talento è specifico ed è ciò che facilita la performance in determinati ambiti. L’associare concettualmente il talento alle persone talentuose ci porta ad essere vittime di macroscopici effetti alone oscurando l'effettiva origine delle performance degli high performer e, parallelamente, impedendo di scoprire e valorizzare specifici talenti in ogni individuo.

Inoltre, troppo spesso, si confonde un punto di forza con un talento e viceversa. Un punto di forza è il risultato di un mix di fattori come conoscenza, attitudini, contesto, reazioni biochimiche e duro lavoro. Il talento, invece, è solo uno dei possibili ingredienti di questo complesso cocktail e non è né necessario né sufficiente per generare un punto di forza. Questa confusione ha un impatto significativo sia sulla diagnosi che sulla valorizzazione dei talenti e può generare frustrazione.

Un'altra complessità è di natura culturale. La cultura occidentale, non solo in ambito manageriale, tende a concentrarsi sul “colmare i gap” piuttosto che sul rafforzamento delle eccellenze individuali. Nonostante la crescente richiesta di specializzazione, si preferiscono le persone "tonde" (senza grandi lacune). È facile comprendere come questo imprinting culturale possa mettere una pietra tombale su una gestione effettiva ed efficace dei talenti.

Oltre a queste complessità di fondo, ci sono anche errori grossolani nella gestione operativa del talento in azienda.

Spesso, all'interno dei sistemi di gestione del personale, i talenti sono trattati come gli allergeni nei menu dei ristoranti: teoricamente importanti, ma messi in appendice e considerati solo da chi già ha una consapevolezza profonda rispetto alla rilevanza del tema.

Anche se il dibattito scientifico sull'innatismo dei talenti è ancora aperto, sappiamo con certezza che un talento non si trasforma automaticamente in un punto di forza e che un talento trascurato può anche atrofizzarsi. È quindi difficile poter pensare di poter coltivare talenti senza mettere in atto azioni concrete e/o generando i contesti più opportuni affinché i talenti possano germogliare.

La diagnosi dei talenti è particolarmente trascurata: pur sapendo che il talento è poco visibile, nascosto nel profondo dell'individuo, poco viene fatto per scovarlo.

Per una buona diagnosi preliminare, ci si potrebbe concentrare sull’individuazione dei sintomi tipici del talento: se si analizza l’attività ben svolta da una persona e si nota che viene svolta con naturalezza, c'è un desiderio di continuare a farla, c’è poco affaticamento e la persona che la svolge ha difficoltà a spiegare verbalmente come riesca farlo così bene, è probabile che il talento sia concausa della buona performance.

Ci sarebbero, inoltre, test non cognitivi in grado di supportare l'identificazione dei talenti, ma purtroppo, in azienda questi strumenti sono poco utilizzati perché considerati o troppo invasivi o poco affidabili.

È bene sottolineare che, indipendentemente dagli strumenti utilizzati e dall’affidabilità della diagnosi, il semplice fatto di innescare una riflessione sui talenti posseduti può essere considerato un ottimo primo passo fondamentale verso una gestione efficace.

Per vincere la sfida dei talenti, anche la loro gestione operativa dovrebbe essere notevolmente migliorata.

È noto che valorizzare e “sfruttare” i talenti individuali all'interno delle organizzazioni ha vantaggi a livello strategico come l'aumento dell'engagement e della soddisfazione, della qualità del lavoro e della produttività. Non dovremmo, però, dimenticarci di un grande vantaggio a livello operativo: le persone che usano i propri talenti, mediamente, diventano performanti su nuove attività in molto meno tempo degli altri.

Quindi, in un periodo in cui i cambiamenti organizzativi sono all'ordine del giorno, perché non favorire una gestione operativa delle risorse umane “talent based”?

Tutti i sistemi operativi di gestione del personale (ricerca e selezione, formazione, valutazione, incentivazione) potrebbero essere rivisti in modo tale da considerare i talenti come leva strategica per la gestione delle risorse umane. Non solo, i ruoli organizzativi potrebbero essere progettati integrando i talenti alle responsabilità e alle competenze.

Questa piccola rivoluzione organizzativa sarebbe sicuramente efficace ma, inevitabilmente, potrebbe essere percepita come troppo invasiva e quindi poi non attuata.

Forse, per favorire l’avvicinamento ad una gestione sistemica dei talenti in azienda è più opportuno individuare una soluzione con un percorso più graduale e a basso rischio.

I "Passion Project" potrebbero fare al caso nostro. Essi non sono altro che normali progetti che vengono svolti all’interno delle organizzazioni per i quali si creano dei team di gestione non basandosi solo sulle competenze delle persone, ma anche sulle passioni e sui talenti individuali.

Utilizzare questa modalità di gestione per alcuni dei progetti da gestire porta indiscutibili vantaggi:

  • Il numero di progetti da gestire in azienda (soprattutto quelli di miglioramento interno) sta aumentando drasticamente e molti di essi rischiano di incagliarsi. Schierare nella gestione persone che svolgono alcune attività con passione e facendo meno fatica potrebbe essere un buon modo per portarli a termine
  • i progetti hanno, per definizione, un inizio e una fine e ciò permette di utilizzarli come “banco di prova” per una diagnosi approfondita dei talenti senza creare eccessive aspettative per il futuro
  • le iniziative progettuali sono “uniche”e “creano qualcosa di nuovo”, quindi è probabile che non vi siano corrispondenze specifiche con le competenze già presenti in azienda. Inserire nei team di progetto persone con meno competenze specifiche, ma che imparano velocemente e che possono offrire delle visioni laterali, dovrebbe permettere di mantenere alto il livello di performance.

In sintesi, i Passion Project: tanti vantaggi con pochi rischi.

Alla luce di tutto ciò…

Vogliamo prepararci seriamente per la guerra dei talenti affinché non sia una Waterloo annunciata?

Siamo pronti a mettere un po’ di passione e di talento nella gestione dei progetti?

 

Massimo Ramponi, Managing Director, KIP Consulting S.r.l. – Società Benefit

 

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