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     n. 17 anno 2023

La malvagia tentazione di trovare un capro espiatorio

di Nicola Ladisa

Si dice che chi non fa non sbaglia e anche che dall’errore si impara: ma l’istinto più diffuso quando c’è un errore è trovare chi ha sbagliato, il capro espiatorio.

“Capro espiatorio” deriva dal rito ebraico compiuto nel giorno dell’espiazione, quando, appunto, un capro era caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati del popolo e poi mandato via nel deserto. Consuetudine conosciuta anche dai Babilonesi e Assiri, dai Greci e poi tramandata nella nostra cultura, dove è rimasta saldamente impiantata: basta pensare alla formula liturgica «ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi».

Quasi una situazione normale, anzi direi necessaria: il capro espiatorio, accollandosi le colpe, libera il resto della tribù da ogni situazione negativa; allontanandosi dal gruppo, la solleva dai sensi di inadeguatezza.

Quindi, quando oggigiorno si commette un errore nella “tribù azienda”, ci si chiede in modo naturale chi abbia sbagliato e non perché si sia sbagliato o come evitare di sbagliare in futuro. Chi commette l’errore, spesso viene allontanato: escluso da un gruppo di lavoro e ricollocato o addirittura licenziato, perpetrando quel meccanismo della persecuzione e del sacrificio che viene da molto lontano.

La metafora del sacrifico nell’azienda è facile da ritrovare ed è “normale” che avvenga anche nelle moderne e strutturate organizzazioni di oggi, perché fa parte della nostra cultura, storia e rito.

Piuttosto, c’è da pensare che sia meno “normale” affermare che:

  • il “buon leader” si prende le responsabilità e difende la sua squadra nell’errore;
  • le persone apprendono dall’errore;
  • il capo deve saper dare un riscontro costruttivo soprattutto quando il collaboratore sbaglia;
  • le organizzazioni evolvono apprendendo dagli errori commessi;
  • se si ha paura di dire che si ha sbagliato, allora l’ambiente di lavoro è tossico;
  • chiedere scusa per un errore commesso è un segno di forza e non di debolezza;
  • le scelte devono essere fatte senza paura di sbagliare;
  • nell’errore le persone devono essere motivate, non umiliate.

Si potrebbe continuare l’elenco: basterebbe prendere la letteratura HR e di “Effective Organization” dell’ultimo ventennio e forse anche più. 

Ma è proprio qui il punto: è da quasi trent’anni che si predica di passare da una cultura aziendale della colpevolezza ad una della consapevolezza e si tende a continuare ancora. Mi pare evidente che non ci si sia liberati da ciò che si ha come parte antropologica delle “Tribù/Azienda” e delle persone stesse: la necessità di un “capro espiatorio”.

Perché, allora, ci si intestardisce?

Cerchiamo di razionalizzare con qualche riflessione:

  • Se l’errore commesso è tale da mettere a repentaglio i risultati di business, forse è giusto “allontanare” chi li ha commessi per la salvezza dell’azienda!
  • Se le aziende continuano il rito del capro espiatorio e in questi anni sono ancora sul mercato con buoni risultati, perché dovrebbero cambiare?
  • Se gli obiettivi di breve sono più importanti di quelli di medio termine, l’errore non è ammissibile!
  • Se il sistema educativo continua ad essere basato su nozioni e non sul processo di apprendimento, tanto che, quando gli studenti non le apprendono, vengono bastonati con insufficienze, si continuerà a generare futuri lavoratori che saranno avvezzi al rito del capro espiatorio legato al binomio “giudizio/espiazione della colpa”.
  • Se continueremo a disciplinare il performance management che mira all’eccellenza, giusto allora considerare l’errore come una vergogna.
  • Se continuiamo a pensare che le storture e le anomalie rispetto ai canoni definiti siano aberranti e non portatrici di innovazione, allora chi sbaglia pagasse!

Più ci penso e più realizzo che ci sia una situazione bipolare (preferisco pensarla così piuttosto che ipocrita), tra quello che si idealizza e quanto si mette in opera con le prassi aziendali. 

Che fare, allora?

Se iniziassimo aeducare i manager a dare alla squadra, formata da persone competenti, la possibilità di risolvere i problemi senza di loro?

Se cominciassimo a pensare che essere un grande manager non significhi solo saper risolvere i problemi, ma anche mettere i propri collaboratori in condizione di risolvere i problemi da soli?

Significherebbe delegare di più e dare la responsabilità individuale nel prendere ogni decisione senza il timore che, se si sbaglia, il capo sia spinto a trovare chi espia le colpe dell’errore.  

Il percorso non è facile, perché bisognerebbe costruire prima di tutto nel manager la fiducia nelle capacità delle persone del proprio gruppo di risolvere i problemi, e, poi, comunicare questa fiducia in modo esplicito, autentico e senza indugi.

Permettere alla squadra di “fallire” (e imparare) in modo indipendente faciliterebbe una crescita di consapevolezza, responsabilità e fiducia e non più tenere sempre tutti sotto controllo, giudicare e punire.

Il capo dovrebbe essere capace di creare una cultura di squadra ottimista, abbracciando una mentalità di crescita collettiva. Che si tratti di problemi tecnici o interpersonali, ilcompito principale del capo è quello di aiutare i collaboratori a sviluppare opzioni per gestire la situazione – senza di lui – nell’immediato e in futuro. 

Non è il trito e ritrito ruolo del “servant leader”, oramai vetusto esempio di letteratura HR. In questa proposizione non c’è nulla di “servile”, anzi. Diviene un promotore della crescita delle persone, del loro senso di responsabilità, dell’uso dei propri talenti, del valorizzarsi portando valore aggiunto all’azienda. È un leader che pretende (non la luna), che stimola, che spinge al miglioramento: tutt’altra visione della smielata idea di essere un “gentile”. 

Né servo, né gentile, ma stimolatore e pretenzioso. Quando la squadra vincerà perché sarà cresciuta, il leader potrà anche allontanarsi per altre sfide. Se perde, sarà lui il “capro espiatorio dell’era moderna”, come giusto che sia.

 

Nicola Ladisa, HRO Director Holding De Agostini Group

 

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