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     n. 19 anno 2022

Le imprese italiane (sempre) guidate da anziani

di Ugo Perugini

Hanno più di 70 anni in media i titolari di imprese italiane, siano essi proprietari, soci, amministratori delegati e altre cariche di rilievo. Insomma, le persone che occupano tali incarichi nelle aziende italiane non sono certo di primo pelo.

Ma quello che preoccupa è che negli ultimi dieci anni il fenomeno è andato peggiorando: gli “anziani al timone” sono aumentati da 1 a quasi 1,3 milioni. E anche la classe che va dai 50 ai 60 anni è anch’essa in netto aumento (+ 17, 1%).

Spazio ai giovani? Ma dove? Ma quando?

I giovani ai vertici delle aziende per riflesso sono nettamente diminuiti. Quelli nelle età tra i 30 e i 49 anni sono diminuite nello stesso periodo di tempo del 28% Quelle con meno di 30 anni del 25, 9%. E le donne? Non sono cresciute di molto in dieci anni. Erano il 27% nel 2012 sono il 27,8% nel 2021.

Il problema non riguarda solo i titolari di impresa ma anche chi svolge compiti operativi. Qui, l’invecchiamento è anche più rapido. Gli amministratori di impresa in Italia sono 613 mila con un aumento quasi del 43%!

Quali i motivi?

Chi ha svolto questa rilevazione (Studio UnionCamere e InfoCamere) sostiene che una delle ragioni sia l’invecchiamento della popolazione. Il problema però deve preoccupare perché è evidente che il passaggio generazionale ai vertici dell’imprenditoria italiana così rallentato finirà per impedire quel processo di modernizzazione assolutamente necessario.

Perché succede questo in Italia?

La gerontocrazia forse sta a dimostrare che i sessantenni e i settantenni sono più bravi dei giovani? Che hanno maggiori competenze (o almeno più esperienze) per guidare e decidere le sorti delle aziende italiane?

Se fosse così non dovremmo assistere a risultati di crescita così bassi nell’imprenditoria del nostro Paese e a una generalizzata crisi di credibilità internazionale davvero preoccupante. Oltretutto, il fatto che i giovani più validi siano costretti ad emigrare per trovare la giusta valorizzazione sembrerebbe confermare il contrario.

Che la ragione sia decisamente più semplice?

Cioè che i nostri vecchi imprenditori siano incapaci di rimettersi in discussione, al di là dei risultati ottenuti. Che non vogliano mollare il potere conquistato e si oppongano con tutti i mezzi a qualsiasi ricambio generazionale.

Qui, il discorso si fa serio. Chi comanda da lungo tempo è facilmente preda di quello che potremmo definire un meccanismo autoreferenziale, il che significa interpretare la realtà secondo i propri schemi di riferimento, essendo incapace di lasciare lo spazio a chi è più giovane ma altrettanto e, forse, più competente. Qualche volta succede che i giovani possano arrivare alla stanza dei bottoni. Ma spesso ci accorgiamo che sono figli di qualcuno ben conosciuto e già inserito!

A questo punto, un ricambio generazionale più rapido ai vertici delle aziende, non è dettato da una qualunquistica e ottusa operazione giovanilistica. Ci sono ragioni legate alla stessa natura umana, oltre ché alla convulsa evoluzione dei mercati, che richiedono una capacità di innovazione molto più rapida ed efficace. In altri termini, l’esperienza è importante ma in questa temperie lo è, forse ancora di più, la creatività, l’innovazione. 

Qualche indicazione aggiuntiva sul fronte della creatività

La ricerca di un professore dell’Università della California, Dean Keith Simonton, mette a confronto l’età con la creatività e l’innovazione e dimostra che quest’ultima aumenta rapidamente all’inizio della carriera, raggiunge il picco dopo circa 20 anni, quando la persona attiva ai 40/45 anni d’età, e poi entra in lento, inesorabile, declino. 

Un'altra ricerca sui Premi Nobel e i grandi inventori nel corso del Ventesimo secolo (svolta da Benjamin Jones della Università di Kellogg) conferma questi dati. E’ azzardato confrontare un CEO con un Nobel? Forse sì. Comunque sia, la maggior parte di questi personaggi ha svolto il proprio lavoro “rivoluzionario” tra i 30 e i 40 anni. Nessuno di loro l’avrebbe completato prima dei 20 anni e solo il 14% lo ha svolto dopo i 50 anni. 

Non va dimenticato – l’avevamo già accennato - che negli ultimi anni, la durata media della vita umana e l'invecchiamento della popolazione sono aumentati, oltre al fatto che sono cresciuti gli anni aggiuntivi di istruzione necessari per approfondire certi studi scientifici.

Nessuno nega che anche la gestione delle imprese richieda tempo per imparare, in un mondo sempre più complesso. Tanto è vero che i migliori amministratori delegati continuano a studiare mentre procedono nella loro attività, e questo potrebbe compensare un eventuale calo della creatività che deriva dall'età. Ma i giovani hanno alcuni vantaggi quando si parla di creatività e i manager di tutte le età non dovrebbero mai dimenticarlo.

Cosa vogliono in fondo i giovani?

I ricercatori del MIT e della Università della Pennsylvania hanno rilevato due cose importanti, e abbastanza ovvie, cioè che i CEO di start-up tecnologiche di successo sono molto più giovani dei capi d’azienda di quelle affermate, e che le aziende con amministratori delegati più giovani perseguono l'innovazione in modo più aggressivo e tendono ad assumere persone più giovani di loro, il che è fortemente correlato all'attività innovativa.

Questo fatto non dovrebbe spaventare i CEO più anziani ma incoraggiarli a costruire e mantenere un'organizzazione innovativa, assumendo le persone giuste e finanziando i progetti giusti, ed in entrambi i casi la loro esperienza potrebbe avere un valore inestimabile. Anche se non dovrebbero dimenticare che, a un certo punto, sarebbe necessario (e fisiologico) che si facessero da parte…
Oltretutto, non va dimenticato che i giovani hanno bisogno di avere una adeguata formazione, anzi sono loro che la richiedono. Secondo un recente sondaggio (https://tallo.com), i lavoratori della Generazione Z (nati dopo il 1996) chiedono alle aziende di avere una qualificazione che consenta loro di accedere ai piani alti dell’azienda. 

In particolare vogliono sviluppare soft skill, cioè capacità di leadership, come comunicazione, gestione, pensiero critico, ecc.; costruirsi competenze tecniche, riguardanti la scienza, la tecnologia, l’informatica, ecc.; diventare capaci di affrontare la realtà dei mercati, attraverso opportunità di collaborazione, sperimentazione, apprendimento continuo.

Insomma, i giovani chiedono alle aziende e ai responsabili delle HR di non considerare più la loro formazione un costo o una mera prassi istituzionale ma la vera chiave strategica per crescere all’interno dell’azienda e farla crescere. Bisognerebbe ascoltarli.

 

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