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     n. 12 anno 2019

L'età del paradosso

Passi tratti dalla prefazione di Enrico Sassoon

Questo è un libro destinato a sicuro successo. Basterà pubblicizzarlo adeguatamente. Per esempio, utilizzando come slogan: "Se siete stupidi non compratelo, non fa per voi". Sarebbe, occorre ammetterlo, un po' un trucco da baraccone: chi infatti ammetterebbe di essere stupido? Ma funzionerebbe, perché, come sottolinea Paolo Iacci in questo libro sul paradosso dei paradossi, difficilmente l'incompetente capisce di esserlo, figuriamoci lo stupido.

Il titolo di questo libro, L'età del paradosso, non gli rende dunque giustizia. È ben vero che si tratta di uno sforzo intellettuale che ruota attorno a un numero alquanto elevato di paradossi e citazioni che spaziano su oltre tre millenni di pensiero umano, ma in realtà è appunto un libro di un autore che non sopporta la stupidità e vuole celebrare l'intelligenza. Il ricorso a paradossi, aforismi, citazioni sagaci di personaggi storici o di semplici cittadini da Confucio a Seneca ai giorni nostri ha in fondo solo questo scopo: avvertire il lettore del rischio esistenziale che la società in cui viviamo sta correndo per l'aumento esponenziale di incompetenza, opportunismo e stupidità, ed esortarlo ad abituarsi a fare una cosa rivoluzionaria: la scelta giusta....

...Ma cos'è un paradosso? Nelle prime pagine del libro ne compare la definizione, e va tenuta presente in tutto il resto dell'opera: "Il paradosso è una proposizione formulata in apparente contraddizione con l'esperienza comune o con i principi elementari della logica, ma che all'esame critico si dimostra valida"....

... Dunque, si tratta di un processo mentale di approssimazione che usa appunto la logica del paradosso per avvicinarsi all'obiettivo quanto più possibile. Siamo umani, e da un po' ci siamo resi conto che la vera scienza esatta, e forse l'unica, è il senno di poi. Nelle imprese, poi, questa diventa la regola aurea di comportamento, almeno quando l'obiettivo è il successo o, più modestamente, la sopravvivenza.

In tema di scienza, giustamente Iacci ci ricorda che è da tempo che il mito del scientific management di harvardiana memoria è andato in frantumi. Oggi è più prudente riferirsi alla gestione aziendale come a un'arte, dove emozioni e intuito giocano un ruolo almeno pari alla competenza e all'esperienza. Siamo orfani di certezze: solo lo stupido o l'incompetente ormai le hanno, ed è perché la loro scarsa e scadente dotazione di conoscenza li rende forti delle poche verità assolute che si aggirano sperdute nell'etere rarefatto del loro cervello. Ma il manager?

Il manager, che non è sempre il leader, ma che volente o nolente è quasi sempre un decision maker, deve saper coltivare i propri difetti e tesaurizzarli ben più dei propri meriti. Un paradosso? Forse, ma efficace in una realtà che in molte parti si è ribaltata. Se per esempio fino a ieri si operava guardando nello specchietto retrovisore, oggi occorre "apprendere dal futuro". Si è richiesti di operare miracoli: realizzare eccellenti risultati di breve termine (il mercato ti guarda e l'azionista lo pretende) e garantire la crescita sostenibile nel lungo periodo; coniugare taglio dei costi e aumento della qualità; standardizzare i processi e i prodotti e aumentare la customizzazione; realizzare all'estremo la personalizzazione di massa; eccellere nel mondo fisico e in quello digitale, utilizzando le tecnologie più sofisticate senza svalutare l'elemento umano, dipendente o cliente che sia. E via discorrendo.

Il manager, che è notoriamente solo al comando, deve saper fare tutto anche quando è vincolato da leggi apparentemente inviolabili come quella che prevede che si possa salire nella scala professionale solo aumentando il proprio grado di incompetenza. Come se ne esce?

La risposta sta appunto nel paradosso, l'ancora di salvezza che ci permette di guardare alla realtà con una lente deformante che è l'unica a consentire di vederci chiaro.....

..... "Ciò che sto tentando di dimostrare - scrive Iacci - è che ormai il paradosso è diventato un elemento strutturale della vita quotidiana". Perciò va riconosciuto e accettato, che è l'unico modo per conviverci.

Prendiamo il fallimento. Ciò che è veramente fallimentare, dice il nostro autore, è considerare un errore o un fallimento come un insuccesso. Sempre Einstein diceva che chi non ha mai sbagliato non ha mai praticamente fatto nulla nella propria vita. Dunque, occorre considerare un fallimento come un'ottima opportunità per apprendere e per migliorare. Ma così non è nella nostra cultura e nelle nostre organizzazioni, implacabili con chi compie l'errore perché incapaci di riconoscerne il valore cognitivo. L'errore genera esperienza, certo non va accettato se sistematico, ma va utilizzato per compiere successivi passi avanti.

Altro paradosso dei nostri tempi: la formazione delle persone. Viviamo un momento rivoluzionario. La trasformazione tecnologica basata sul digitale investe ogni aspetto della vita e del lavoro. Le innovazioni si susseguono a ritmo esponenziale. Le competenze diventano obsolete a ritmo crescente. L'avvento dell'intelligenza artificiale inizia già a rendere meno necessarie schiere crescenti di lavoratori, anche ai massimi livelli di conoscenza. E questo ha preso a verificarsi in un decennio, quello appena trascorso, in cui è esplosa la peggior crisi economico-finanziaria della storia, con effetti che durano tuttora nei mercati finanziari, vivono nei debiti di aziende e Paesi e si esplicano ovunque in termini di incertezze globali.

In questo mare in tempesta la classe dirigente economica e aziendale deve navigare evitando di affondare. E Iacci la battezza "emergenza manageriale" rilevando una verità incontestabile: in un frangente come questo, in cui continuiamo a parole a esaltare la centralità dell'elemento umano nella rivoluzione tecnologica, accettiamo la depauperizzazione delle competenze, investiamo sempre meno in education (Governi miopi) e in formazione (imprese autolesioniste) condannando il nostro sistema imprenditoriale all'irrilevanza. Con una aggravante, rappresentata dalla pessima abitudine di riempirsi la bocca di espressioni come "guerra dei talenti" mentre alla base le competenze vengono falcidiate dall'indifferenza o dai tagli del personale per fare il risultato trimestrale.

Si potrebbe andare avanti ma i lettori avranno già capito. L'autore guarda alla realtà senza paraocchi con un intento che non si può non condividere: togliere quell'accessorio equino e far aprire gli occhi perché gli errori più comuni e frequenti nella gestione delle imprese si possano attenuare (certamente, mai annullare) e le organizzazioni possano diventare organismi viventi in continua evoluzione dove l'apprendimento diventi la norma, le persone vengano realmente valorizzate e i manager posti nelle condizioni di prendere le migliori decisioni.

Va detto che, disegnando il percorso teso al nirvana della consapevolezza manageriale, Iacci non si risparmia (e non ci risparmia) quasi nulla. Dotato di una buona, e forse anche giustificata, dose di autostima, propone un abile ed elegante puzzle di ben 25 paradossi che non hanno certamente il difetto di limitarsi a considerazioni spicciole sulla felicità manageriale.....

.... Col che il cerchio si chiude e si torna al principio. Infatti, l'impresa è lo specchio di una società e non una isola felice o un'eccezione. E forse, per tirare una riga al fondo della questione, può valer la pena di estrapolare dal paradosso numero 12, detto "paradosso dei comitati", una massima di grande saggezza: "mai discutere con un idiota, ti trascina al suo livello e poi ti batte con l'esperienza" (Prima Legge di Hammond). O, se può piacere una perla ancora più preziosa: "la stupidità è la sola cosa che dia un'idea dell'infinito". In fondo questo è un libro su intelligenza e stupidità applicati al governo di imprese e società. Facciamo in modo che sia la cosa giusta a prevalere.

 

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