hronline
     n. 6 anno 2018

Il successo della Mediocrazia

di Mario Pasta

Ho letto "Mediocrazia", affascinante libro del filosofo canadese Alain Deneault.

L'opera ha avuto grande risonanza internazionale. La fascetta rossa che lo avvolge per richiamare i lettori, spara ad alto volume tutto il marketing necessario al successo: come e perché i mediocri hanno preso il potere. Poche parole, ma estremamente incisive. Perché ciascuno di noi si sente direttamente chiamato in causa da un simile lancio commerciale. E naturalmente non in quanto mediocre. Anzi. In fondo "tutti noi pensiamo di non essere mediocri, ma nella realtà è statisticamente molto probabile che lo siamo" (Giovanni Carlino, HR OnLine, n. 20/2016).

Il genere umano si occupa da molto tempo della mediocrità: "Una prima descrizione degli esseri mediocri è fatta da Jean de La Bruyére nel settecento", spiega Deneault a Repubblica (intervista di Anais Ginori del 25/01/17). A fine lettura devo dire che i risvolti di copertina ne fanno una sintesi davvero eccellente: Questo libro annuncia [...] la presa del potere dei mediocri e l'instaurazione globale del loro regime, la mediocrazia, in ogni ambito della vita sociale. [...] L'avvento della mediocrazia è impensabile senza l'avvento dell'industrializzazione del lavoro [...] e della sua espressione ultima, quella "Corporate Religion", quella religione d'impresa che pretende [...] di unificare tutto sotto la sua egida. Oggi il termine mediocrazia designa standard [...], protocolli [...], processi di verifica attraverso i quali la religione d'impresa organizza [...] l'ordine grazie al quale i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni [...], la competenza all'esecuzione pura e semplice. È il risultato di un percorso che è cominciato quando il lavoro è diventato forza-lavoro [...] Oggi, nella società delle funzioni [...] per lavorare bisogna saper far funzionare un software, riempire un modulo senza storcere il naso, [...] salutare opportunamente le persone giuste. Non serve altro. Non va fatto nient'altro. Insomma, essere perfettamente, impeccabilmente mediocri".

Drammatico, assolutamente drammatico. Perché queste parole inducono il lettore ad associarle istantaneamente alla propria realtà lavorativa.

Volendo spingermi più profondamente nelle dinamiche del testo, comincerei con una precisazione: ritengo che il concetto di mediocre esposto da Deneault sia differente da quello cui siamo abituati a pensare. Per noi il mediocre è un tizio con poche qualità e nemmeno troppo sviluppate. È una visione profondamente negativa legata all'individualità del soggetto. Mi pare invece che il filosofo ne tracci un profilo tendenzialmente oggettivo: "Mediocre è chi tende alla media, chi vuole uniformarsi a uno standard sociale" (Repubblica, intervista di A. Ginori). E ciò non riguarda le sue qualità professionali individuali. Perché il mediocre, afferma l'autore, è in grado di lavorare tanto e talvolta può essere perfino competente. Seppure lo stesso Deneault affermi come la principale competenza del mediocre sia la capacità di "riconoscere un altro mediocre", con cui quindi poter intrallazzare. Io penso, però, che la competenza del mediocre sia confinabile al piccolo recinto del proprio orticello, difeso strenuamente come fosse il più esteso e fertile terreno agricolo del mondo. Penso che il mediocre sia tale per atteggiamento, per asservimento, per rinuncia. Più o meno consapevolmente. Anche se la consapevolezza dovrebbe essere ritenuta una significativa aggravante.

Il mediocre è inteso come un debole che si lascia usare dal sistema, che rinuncia a pensare, che rinuncia alla propria dignità e che, in definitiva, rinuncia soprattutto a se stesso. E vi rinuncia per un lucro risibile come l'effimera buona considerazione del proprio superiore o per il piccolo premio di Natale. O magari per qualcosa di obiettivamente più sostanzioso come una poltrona o un ruolo ma che le modalità di assegnazione privano totalmente di valore assoluto.

Se dunque mediocre si avvicina a medio, e mediocrità secondo Deneault "indica uno stato medio tendente al banale, all'incolore", non rimane che domandarsi come sia possibile l'emersione del mediocre.

È possibile perché il mediocre si afferma in un contesto (sociale, politico o aziendale che sia) nel quale la mediocrità è già divenuta necessaria, se non addirittura un criterio di riferimento. Ma pure essa, la mediocrità, ha avuto bisogno di un clima idoneo a concimare la sua affermazione. E in generale, secondo Deneault, è stata la frammentazione del lavoro a contribuire enormemente all'avvento di un potere mediocre.

Mi pare che la frammentazione sia ormai "venduta" come specializzazione, ma sono convinto che far fare a qualcuno solo una piccola parte del lavoro non significa specializzarlo. Anzi. Significa privarlo di valore, fino alla perdita di contatto con il proprio lavoro e con il lavoro nel suo complesso. Il lavoratore non fa più un mestiere, ma è esso stesso un frammento inconsapevole di un processo più esteso del quale non ha contezza (e di cui spesso anche il vertice non ha conoscenza né controllo). Non lavora più, svolge solo una piccola funzione. Asettica. In questo contesto depersonalizzato e privato di mestieri, il potere necessario al governo del sistema è esso stesso mediocre. Perché è tutto standardizzato ed il mediocre si concentra ad ogni livello sul rispetto dello standard, del processo, della fedele ed ossessiva ripetitività di piccole operazioni. Ed ognuno contestualizzi dove gli pare: in politica, in società, nella propria azienda o nel proprio ufficio.

Proprio qui il mediocre può affermarsi: in un contesto in cui i "poteri costituiti non deplorano i comportamenti mediocri, li rendono inevitabili". Il terreno è particolarmente favorevole ai mediocri che riescono quindi ad emergere "a furia di favoritismi, di collusioni, di compiacenze; man mano controllando questo e quello, si pongono a capo delle istituzioni". Queste modalità furono osservate già nel dopoguerra, rileva Deneault, quando Raymond Hull e Laurence J. Peter (quest'ultimo noto per avere formulato il principio di incompetenza, il noto "Principio di Peter") svilupparono un tesi di "una chiarezza rigorosa: i processi sistemici incoraggiano l'ascesa ai posti di potere da parte di attori mediamente competenti, mettendo al margine" tanto gli incompetenti quanto, soprattutto, i più preparati.

Ma torniamo alla "filosofia aziendale".
Mentre mediocre e mediocrità rimandano al concetto di medio, la mediocrazia si slancia ben oltre: essa "fonda un sistema nel quale la media non è più un'elaborazione astratta [...] ma una norma imperiosa che non basta osservare, bensì bisogna assimilare". Si tratta di un'evoluzione, niente meno. "La mediocrazia designa dunque un ordine mediocre innalzato a modello". Un ordine, un sistema nel quale non c'è più niente. Perché "la mediocrazia ci spinge verso un assopimento del pensiero, ci spinge a considerare come inevitabile ciò che si rivela inaccettabile e come necessario ciò che è rivoltante".

Dunque, il sistema incoraggia la mediocrità, la prescrive. Perché il mediocre è controllabile, gestibile, indirizzabile, manovrabile, ma anche incolpabile e sacrificabile. Di norma, e per definizione, infatti, non ha la personalità per imporsi e quindi nemmeno per opporsi.

Ma soprattutto il sistema esclude, anche con violenza, chi non si adegua, chi non sta al gioco: "Per punire una mancanza di sottomissione si arriva ad uccidere simbolicamente". Ho visto personalmente questa esclusione esercitata brutalmente con un'efficacissima (seppure del tutto inconsapevole) applicazione della Teoria dell'Etichettamento. Perché è facile attribuire istituzionalmente una qualche colpa ad un soggetto. E poi il resto è quasi automatico: "attraverso l'assegnazione dell'etichetta di criminale (nel nostro caso, al soggetto non sottomesso può essere attribuito di tutto: carattere difficile, personalità ingestibile, profilo inadeguato, e così via, ma anche la sfera privata funziona benissimo) all'autore presunto di un singolo reato [...] si innescherebbe un processo in grado di trasformare l'autore in un delinquente cronico. Influirebbero su questo processo sia le conseguenze della diffidenza, della disistima e della stigmatizzazione della collettività [...], sia l'isolamento e l'esclusione sociale che materialmente le "istituzioni totali" provocano. L'etichettamento produrrebbe quindi conseguenze deleterie (e sostanzialmente irrecuperabili, aggiungerei), a livello di rappresentazione sociale". (Wikipedia). Ulteriore criticità: l'assegnazione dell'etichetta effettuata da un soggetto di potere, genera nei sottoposti non etichettati la percezione di una forte aspettativa di condivisione e rafforzamento della stessa (quando non sia addirittura richiesta, espressamente o implicitamente).

Abbiamo detto che il sistema esclude chi non sta al gioco. Ma quale gioco, di cosa si tratta?

Il sistema descritto dal filosofo è imperniato su un intreccio di relazioni sociali, personali e professionali in cui le tre competenti si sovrappongono equivocamente e che, complessivamente considerate, sembrano delineare proprio la trama di un gioco. Un crudele gioco di società nel quale gli obiettivi (esclusivamente personali) si raggiungono con la costruzione di relazioni ambigue ma utili e idonee, nel contempo, ad eliminare gli avversari. Un gioco in cui i partecipanti (i mediocri e gli aspiranti tali) si affannano proprio per non essere eliminati.

Ma cosa significa giocare il gioco? Deneault risponde così al Sole 24Ore (Angelo Mincuzzi, 19 Giugno 2016): "Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. [...] Si tratta di attuare comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata".

Sul significato, invece, dell'espressione "stare al gioco" Deneault fornisce una risposta drammatica: "stare al gioco consiste nel non sottomettersi a nulla che sia estraneo alla legge dell'avidità".

Il gioco è l'attività attraverso cui il mediocre si insinua nei gangli della società o di un'istituzione o di un'azienda, vi si abbarbica succhiando il succhiabile mentre attende di capire modo e momento per posizionarsi ad un livello superiore e ricominciare da capo. È l'attività con cui il mediocre si avvinghia ad un soggetto dotato del potere che gli serve per scalare il prossimo gradino, riuscendone a carpire stima e fiducia. È l'attività con cui il mediocre riesce ad impadronirsi di meriti altrui e scaricare colpe proprie. È l'attività con cui il mediocre riesce a non sbagliare mai, semplicemente non assumendosi mai una responsabilità. "È il regno della doppiezza e dell'imbroglio" in cui i "partecipanti credono di essere i più scaltri" del mondo ed arrivano a filosofeggiare sostenendo proprio la necessità inevitabile di stare al gioco "laddove il gioco spinge ora a inchinarsi in maniera ossequiosa alle regole stabilite con il solo scopo di un posizionamento di prestigio sulla scacchiera sociale, ora a farsi beffe con compiacenza di quelle stesse regole attraverso molteplici collusioni che pervertono l'integrità del processo".

E chi sono i giocatori?
"In realtà giocare nel senso di conformarsi alle regole è una caratteristica delle persone deboli", spiega Deneault. Ed in effetti il gioco è sostanzialmente popolato da mediocri. Eppure in questa competizione troviamo almeno un paio di tipologie di giocatori: chi lo conduce dall'alto e chi vi si assoggetta dal basso.
"Per coloro che lo dominano, il gioco conduce a un piano di feroce competizione al fine di determinare, in un rapporto di forza i cui mezzi sono assolutamente arbitrari, chi farà stare al gioco chi". Per loro il gioco "rimanda a un sistema politico alternativo, mal strutturato, indicibile persino presso coloro che lo instaurano, arbitrario, imprevedibile e assolutamente antidemocratico" nel quale possono arrivare addirittura ad utilizzare "le leggi formali per eliminare un avversario".
"Per coloro che vi si sono sottomessi, per coloro che ci stanno, il gioco si riduce a lubrificare i loro rapporti con quelli che lo instaurano arbitrariamente [...]. I mediocri vi si prestano tranquillamente; il loro cruccio è soprattutto quello di evitare che li si faccia uscire dal gioco".

Ecco, ora non rimane che domandarsi chi siano i giocatori in grado di comandare il gioco.
Mediocri saliti tanto in alto da poter dettare regole d'ingaggio? Mediocri semplicemente più cattivi degli altri? Non mediocri capaci di dissimulare se stessi? Soggetti - mediocri o no, in questo caso probabilmente non fa differenza - che si trovano a livello per semplice diritto ereditario? Mediocri piazzati su una poltrona proprio in quanto mediocri? Nel caso ultimo, piazzati da chi: da altri mediocri o da qualche non mediocre? Oppure? Chi altri?

Non so rispondere con precisione, ma posso scommettere che al vertice del gioco vi siano sostenitori sfegatati delle "istituzioni totali". In queste pagine l'espressione ha fatto una fugace comparsa. Con tale concetto veniva intuitivamente indicata quel tipo di organizzazione in cui la partecipazione è intesa unicamente in modo assoluto. Una sorta di legame esclusivo, mentale ancor più che lavorativo, nel quale il lavoratore non ha alternative alla totale dedizione, finendo "prigioniero" di una relazione totalizzante.

Ecco, Deneault ne fornisce una descrizione più articolata ed al contempo efficace, ricorrendo al concetto di "religione d'Impresa" (mutuato da Jesper Kunde, autore proprio del libro Corporate Religion): "Costretti a constatare il fallimento del management [...] i teorici dell'organizzazione si sono infatti lasciati ispirare dai discorsi e dai principi [...] dei grandi testi religiosi. [...] L'obiettivo è unificare tutto in una religione dell'impresa, nientemeno" e spiegare "ai proprietari di aziende e ai direttori delle risorse umane come trasformare la propria ditta in un luogo di culto".
Seppure l'elaborazione concettuale fosse originariamente dedicata allo sviluppo di marchio e prodotto, ritengo che traslandone l'applicazione al modo di gestire aziende da parte di certo management, si evidenzi una preoccupante coincidenza. Perché il concetto viene ormai proiettato internamente all'organizzazione e non più sul prodotto. Soprattutto nel terziario, dove non c'è un vero prodotto ma viene venduto un servizio, seppure spesso erroneamente definito prodotto. Qui infatti, è massimizzata la ricerca di fondamentalisti aziendali (non saprei come definirli altrimenti), cioè dipendenti disposti a dare l'anima per l'azienda. Probabilmente nel senso peggiore dell'espressione. E proprio l'assenza di prodotto comporta l'inutilità di competenze funzionali alla produzione e, per conseguenza, la prevalenza di competenze prettamente relazionali rivolte unicamente all'interno dell'organizzazione. Esattamente il contesto di elezione del mediocre. Egli quindi riesce incredibilmente a beneficiare tanto del contesto quanto del culto, dando vita alla figura del "mediocre con approccio fondamentalista" (anche in questo caso non ho trovato una definizione più efficace). Un competitor assolutamente irraggiungibile.

Con riferimento specifico alla religione d'impresa, dice Deneault: "Si tratta di sviluppare attorno all'impresa [...] una passione fantasmagorica che la sleghi da qualunque realtà sociale, storica o politica. All'azienda viene riservato un vero e proprio culto" e tale nuova religione "unisce [...] gli impiegati [...] in una reale comunione, sotto forma di puntuali adunate, saloni pubblici o cerimonie. [...] Insomma, la religione s'impone come una formidabile modalità di manipolazione".

Purtroppo, però, non sempre la religione è cosa buona. Come gran parte delle cose umane, dipende dall'utilizzo che se ne vuole fare. Così, "a furia di coltivare la Buona Novella si diventa così pazzi da costringere i dipendenti a una serie di pratiche settarie. Vengono dispensati corsi di pensiero positivo e sono tassativamente richiesti entusiasmo e buonumore; quanto alla fede nell'attività dell'azienda, è senz'altro obbligatoria, anche se i sofismi in questione sono un insulto all'intelligenza".
Penso che la volontà di imporre pensiero positivo, entusiasmo e buonumore, sia nient'altro che il più affidabile indicatore della cronica incapacità dell'organizzazione di produrli autonomamente. E penso che imporre aggregazione sia segnale non equivoco di grave assenza di governo. O, meglio, di buon governo. È la vecchia questione dell'autorevolezza o dell'autorità. Se i vertici non dispongono della prima, apparirà necessario il ricorso alla seconda. Per la cui applicazione, va detto, cosa può esserci di meglio che una "religione", cioè qualcosa in cui credere senza domande e quindi senza dubbi?

Nell'ambito di questa manipolazione di massa, la frammentazione del lavoro fornisce effettivamente un contributo rilevante all'abbassamento del livello. Del lavoro, delle qualità richieste per svolgerlo, del pensiero, dell'organizzazione nel suo complesso e dei vertici preposti alla sua rappresentanza. Anzi, "il perfezionamento (presunto, aggiungo io) di ogni compito utile a una totalità che sfugge a tutti ha contribuito a rendere esperti dei cialtroni sempre pronti a concionare su scampoli di verità".

Ecco, il tema degli "esperti" è un altro di quelli cari a Deneault: "L'esperto si erige come la figura centrale della mediocrazia. Il suo pensiero non è mai del tutto suo, è piuttosto quello di un ordine di ragionamento che, da lui ben incarnato, è mosso da interessi particolari. [...] Ecco perché non ci si può aspettare da lui nessuna tesi forte o originale". È un soggetto al quale viene affidato il compito di dare autorevolezza accademica e/o scientifica a posizioni rispondenti unicamente agli interessi della minoranza di vertice. Egli infatti "si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo [...]. È la morte dell'intellettuale [...]. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri" cui si conforma per interesse proprio e non per onestà intellettuale.

E se il giudizio sembra duro, per trovarlo morbidamente aderente basterebbe pensare a quante volte le aziende hanno commissionato pareri "concordati" a consulenti esterni al solo scopo di dare fondamenta qualificate a decisioni già assunte ma da formalizzare solo a seguito di adeguato corredo informativo. A difesa dell'immagine, a tutela del consenso (la prima presunta, il secondo estorto) e ad eventuale futura discolpa.

Fermandoci un momento a guardare il panorama lavorativo delineato fino ad ora, troviamo grande desolazione. È il trionfo della mediocrità ed "il mediocre diventa per il potere l'individuo medio, quello attraverso il quale riesce a trasmettere i suoi ordini e a imporre con maggiore fermezza il proprio assetto". Nel quale il lavoro è divenuto nient'altro che uno sgradevole "mezzo di sussistenza per i poveri e un mezzo in grado di produrre valore" per manager ed azionisti.

Già, valore.
Tutto ciò, quindi, "solo" per guadagnare o, peggio, per guadagnare di più. L'orientamento esclusivo al guadagno ha necessariamente una visione di breve termine. Quindi miope. Perché toglie attenzione alla parte strutturale di un'azienda, quella che consente di guadagnare nel tempo, trasferendola al settore finanziario della stessa, quello con cui si può lucrare per qualche trimestrale o nel quale si può "fare bilancio" con operazioni straordinarie. Ebbene, il miraggio dei soldi nasconde benissimo la stupidità. Deneault richiama il lavoro di Alvesson e Spicer ( The paradox stupidity, pubblicato in Italia da Cortina, Il paradosso della stupidità, e recensito su HR OnLine nel n.10 del 2017) con riferimento particolare al concetto conturbante di "stupidità funzionale" : essa "nasconde le pretese della ragione in parecchie strutture dominate dall'allettamento del lucro [...] La stupidità funzionale rimanda a una totale mancanza di un esame di coscienza, a un rifiuto di ricorrere al proprio potenziale intellettuale se non in maniera miope e all'arte dell'elusione davanti a qualunque richiesta di giustificazione [...] La stupidità è necessaria in determinate organizzazioni complesse nelle quali le preferenze di obiettivo sono ambigue".

Solo quest'ultima frase, citazione diretta di Alvesson e Spicer, meriterebbe ampio approfondimento. Ma per evitare un poderoso sconfinamento è meglio limitare l'attenzione a quelle che sono "le reazioni possibili a questa egemonia che perentoriamente induce alla mediocrità". Deneault ne indica ben cinque, scovando profili degni di un'opera di Fellini:

  • Il derelitto - È il soggetto che rifiuta "l'ordine costituito sottraendosi ad esso, tenendo duro come meglio può [...], rifiuta le facezie e le aberrazioni promosse dall'organizzazione contemporanea e sceglie uno status precario. [...]. Così, più che per resistenza politica, questo individuo agisce sulla spinta di un disgusto viscerale".
  • Il mediocre per difetto - È "lo sprovveduto che crede alle menzogne che gli vengono raccontate [...]. Per nulla temibile, amato dagli ideologi, sottoscrive le loro teorie perché si sono confuse con le strutture della sua soggettività".
  • Il mediocre zelante - "Una vera piaga. È il maneggione che si sveglia chiedendosi quali intrallazzi mettere in atto per ottenere i favori di un'autorità della quale conta per opportunismo di condividere le vedute, eliminando con cura tutti i concorrenti che gli danno fastidio. Si tratta di un maestro del compromesso. Lo aiuta l'arte di non coltivare alcuna convinzione. [...] Essere incapace di qualunque riflessione costituisce il suo principale punto di forza".
  • La persona mediocre - È colui che, suo malgrado, "non si nasconde il carattere sterile di ciò che fa [...]. Però ha delle bocche da sfamare e un mutuo da pagare, e pratica il proprio mestiere in modo coercitivo, ben consapevole della banalità del male che esso manifesta, ma avvertendo anche, nel peso delle cose quotidiane, il male della banalità".
  • La testa calda - In questa categoria di confine rientrano quei pochi rimasti, quelli "che danno battaglia denunciando temerariamente le azioni del potere costituito, avendo come unica ricompensa l'orgoglio di non farne parte [...] finché il sistema li riconosce come figure maledette".

L'istinto di scrutare ogni anfratto di questa spietata catalogazione porta al ragionevole convincimento di dover fuggire dalla tentazione di commentarla. Ed io sono fuggito. Proponendomi unicamente il bieco proposito di procurare, attraverso una domanda, qualche riflessione dolorosa a chi ha avuto il coraggio e la forza di leggere sino a qui. Una domanda, dicevo. Una sola. Ma una gran brutta domanda.

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