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     n. 7 anno 2015

La gestione dei conflitti

di Federico Fioretto

Accade spesso che un temporary manager, entrato in azienda per gestire un progetto o una situazione particolare, si trovi al centro di conflitti interni che nulla hanno a che vedere con il suo ruolo, ma che possono influenzare in senso negativo il suo lavoro. Nelle grandi aziende il tema tende abbastanza a sfumare, mentre nelle PMI di matrice familiare dinamiche personali "perverse" rischiano di avere conseguenze di non poco conto sulla gestione. Al di là del metodo presentato, questo articolo mira soprattutto a sensibilizzare i manager, e non solo, su alcuni punti fondamentali per una corretta gestione dei conflitti

CONFLITTO: CANCRO DELL'IMPRESA

Si parla spesso di conflitti, e di conflict management, nel mondo delle imprese, ma è molto pericoloso affrontarli senza una conoscenza profonda delle loro dinamiche. Si rischia di lasciarsi sfuggire quelli più importanti, oppure di lavorare solo sugli effetti e non sulle cause.
È abituale pensare al conflitto come una frizione tra persone, che si esprime con difficoltà relazionali, dispetti, mobbing, se non con veri e propri scontri in campo aperto; così si concentra tutta l'attenzione sul cercare di "mettere pace" tra le persone in questione.
E se l'attrito fra persone fosse solo il sintomo palese di un malessere profondo nell'organizzazione?
La risposta viene dall'antropologia e dalla matematica: infatti sono stati gli antropologi a svelare i meccanismi dei conflitti, studiando le predisposizioni relazionali umane, mentre la Teoria dei Giochi ne ha fornito conferma sperimentale.
Senza addentrarci nei dettagli, è importante sapere che confliggere è per l'Uomo un modo innaturale di risolvere le divergenze e se lo usa è perché il contesto lo favorisce; possono esservi fattori interiori o esteriori, di solito entrambi, ma in ogni caso è possibile agire per risolvere la situazione alla radice e ripristinare condizioni d'efficacia.
Purché si sappia dove mettere le mani.

Un primo passaggio solitamente trascurato è quello d'individuare il livello al quale si situa il conflitto, per poter agire efficacemente; prendiamo come esempio un classico conflitto fra produzione e commerciale - che si manifesta con continue discussioni tra i rispettivi dirigenti. Mi riferisco a un caso reale.
Se il problema è di livello organizzativo, è inutile insistere a operare solo su quello interpersonale.
Un'azione limitata alle persone porta solo a risultati temporanei, poiché il problema organizzativo permane e ricreerà in futuro lo stesso problema.
L'azione va assunta a livello di direzione generale e, ad esempio, può riguardare un modo diverso di predisporre i budget, procedure per la personalizzazioni degli ordini, nuove prassi di approvvigionamento del magazzino materie e semilavorati, e così via.

Il conflitto è un sintomo, non la patologia; essa va accuratamente diagnosticata in modo da risolverne le cause ed evitare continue ricadute.
Esse comportano costi incontrollabili e ripetuti - nel caso di esempio ridotta produttività, penali per ritardo nelle consegne, difetti di produzione, insoddisfazione dei clienti.
Il conflitto che si cronicizza è una minaccia mortale per l'organizzazione perché i suoi effetti tendono a diffondersi come metastasi ed erodere le capacità degli altri organi.
Si possono generare difficoltà finanziarie per ritardati incassi, perdite di quote di mercato, demotivazione e dimissioni di collaboratori "chiave" e via distruggendo.

Alla diagnosi serve un metodo per scoprire le vere radici da cui parte il conflitto, in modo da giungere alla soluzione trasformativa, in cui tutte le parti del conflitto vedono soddisfatti i loro bisogni; ma quali?
Certamente non il desiderio di umiliare l'altro, oppure pretese irragionevoli dovute a un ego smisurato, men che meno richieste dovute all'incompetenza.
Ci vuole un parametro affidabile; personalmente ho dato risposta a questo problema sviluppando un metodo che considera i Bisogni Essenziali, attingendo a una cinquantennale esperienza nel campo della ricerca sui conflitti.
Chi studia le dinamiche conflittuali sa che nessuno entra in conflitto se non sente realmente minacciato qualcosa di profondo, consapevolmente o meno.

Qualunque metodo si segua, l'arte della trasformazione del conflitto consiste nell'individuare le necessità imprescindibili delle persone e dell'organizzazione che ne sono alla radice, la cui soddisfazione è accettabile da tutte le parti.
Non si tratta di mediare, come si fa quando ci si concentra sul "mettere pace" tra due litiganti; si va invece a rimuovere gli ostacoli all'espressione completa del potenziale dell'organizzazione e dei suoi componenti.
Nel caso in esempio, si considerano i bisogni dei due dirigenti, quelli delle funzioni aziendali che ricoprono e dell'impresa nel suo complesso; c'è un punto di convergenza tra i bisogni di tutti i soggetti, ed è questo che va trovato.

Per questo servono certamente le competenze e il metodo, ma anche lo sguardo neutro e acuto al contempo, tipico di chi ha lavorato a fondo su se stesso e conseguito un solido equilibrio di giudizio.
A volte è meglio che questa ricerca sia svolta da un estraneo al contesto conflittuale; in questo senso, oltre al consulente specializzato, il Temporary Manager può essere avvantaggiato rispetto all'interno o all'imprenditore; del resto, sovente il TMan si trova a intervenire in situazioni di crisi, dove certamente qualche frizione frutto delle tensioni che l'organizzazione sta vivendo esisterà comunque.
Per questo è possibile che una solida competenza di trasformazione dei conflitti si riveli uno strumento indispensabile nella "cassetta degli attrezzi" del TMan e un asset importante che può mettere a disposizione dell'impresa cui presta la sua preziosa opera.
Al di là del fatto che lavorare su di sé e saper trasformare le situazioni conflittuali nelle quali ci si può trovare fa bene a tutti.

Federico Fioretto
Formatore e coach, ideatore del Metodo CASE©,

 

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