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     n. 1 anno 2015

World Business Forum: provocazioni sull’asse Milano – New York

di Maurizio Quarta

di Maurizio Quarta

Quest'anno il World Business Forum ha giocato sul tema del cambiamento, di come indurlo nelle organizzazioni complesse: Trish Gorman a New York ne ha classificato alcune tipologie, sotto l'etichetta più generale di disruptor, mentre a Milano la provocazione è stato il leitmotiv di tutto l'evento.

Il tema della gestione del cambiamento ricorre oggi tanto da sembrare solo una moda. Il cambiamento, connaturato peraltro alla dinamica delle organizzazioni, è oggi più che mai la sfida principale dell' impresa, stante che tutti i cicli di vita (di prodotti, servizi, soluzioni, sistemi) si sono fortemente accorciati e velocizzati.
L'induzione e l'innesco dei processi di cambiamento richiedono però persone che abbiano non solo forte desiderio e innata propensione ad alterare lo status quo, ma anche una peculiare combinazione di profilo psicologico e comportamenti personali e "organizzativi".
Nel suo intervento al WOBI On Innovation Network di New York, Trish Gorman - grande esperta di strategia e già tra i relatori del WBF italiano del 2012 - ha tipizzato nella generale figura del disruptor coloro che sono capaci di contribuire al cambio radicale di un'organizzazione o di un'azienda, attraverso idee e azioni, senza mai arrendersi o arretrare lungo il percorso. In termini generali, il disruptor è colui/colei capace di indurre un cambiamento più o meno radicale in un'organizzazione, attraverso le sue azioni e la sua capacità di influenzare i comportamenti e gli atteggiamenti degli altri.
In realtà esistono diversi tipi di disruptor, che Gorman tipizza in quattro stereotipi, in funzione di due continuum:

  • la loro ampiezza visuale e "visionaria" (accattivante la sua distinzione tra coloro che vedono la foresta e coloro che ne conoscono ogni singolo albero)
  • la loro "distanza da terra", ovvero la capacità di tradurre le visioni in azioni. In altri termini la distinzione tra pensatori puri e decisori/realizzatori.

L'elemento comune a tutti i tipi è l'audacia con la quale realizzano e inducono gli altri a realizzare il cambiamento.
Il temporary manager, sempre in termini generali, rientra nella tipologia di coloro che introducono e implementano soluzioni audaci: più correttamente, basandomi su quello che ho visto in tantissimi progetti nel corso degli anni, è forse meglio dire che sono coloro che con audacia introducono cambiamenti, magari non rivoluzionari, ma che l'organizzazione in cui operano non sarebbe in grado di realizzare da sola. La loro audacia deriva dalla consapevolezza delle loro capacità, dall'assenza di condizionamenti politico/ambientali e dal fatto di non avere posizioni di rendita da difendere ad ogni costo.
In altre parole questo tipo di disruptor è qualcuno che porta con sé e introduce nell'organizzazione nuovi modi di fare le cose. un'immagine che uso spesso è quella del conduttore di un treno che, come tale, deve guidarlo rispettando gli scambi e fermandosi alle stazioni, ma che al contempo, con il treno in corsa, deve smontarlo, assemblarne uno nuovo e più performante, insegnando come guidarlo ad un conduttore più junior (e meno costoso per l'azienda nel lungo periodo). E' in buona sintesi un manager capace di muoversi agevolmente tra le due dimensioni (il pensare e l'agire): "sa risolvere i problemi, ma anche sporcarsi le mani" (per usare l'immagine della Gorman).
Anche nell'ambito dei processi di innovazione, non è comunque infrequente il ricorso allo strumento del temporary management, con logiche molto differenti a seconda che si tratti di grandi gruppi piuttosto che di aziende medio piccole.
Nel primo caso, il problema con cui più spesso abbiamo avuto a che fare è quello dell'ottimizzazione complessiva della funzione R&D, tipicamente con i seguenti obiettivi di progetto:

  • revisione degli indirizzi strategici della funzione, spesso in una logica di business transformation legata a significativi cambiamenti degli assetti proprietari o del management (es. l'ingresso di un fondo)
  • la riorganizzazione della funzione e la messa a punto di nuovi modelli e processi operativi normalmente finalizzati al miglioramento del time-to-market e della produttività: es. il modello stage-gate di R.Cooper in cui il lancio di un nuovo prodotto è suddiviso in un certo numero di fasi predeterminate, l'accesso a ciascuna delle quali è denominato gate
  • definizione di una nuova struttura, re-engineering dei processi e delle interfacce verso le altre funzioni aziendali
  • eventuale implementazione dei nuovi sistemi per la gestione del ciclo di vita del prodotto.

In sintesi, si tratta di focalizzare e rendere maggiormente orientata al mercato una funzione caratterizzata da grandi capacità di ideazione, spesso però non canalizzate e operanti in maniera disorganica e destrutturata.
Si tratta di interventi di durata generalmente compresa tra uno e due anni.
Per le aziende medio piccole, il problema è invece quello di doversi confrontare con aziende molto più grandi aventi capacità di ideazione, di promozione e distribuzione decisamente superiori.
In questi casi si ricorre a temporary manager che sappiano spaziare trasversalmente dal concept del prodotto, al marketing strategico e operativo, ai canali di distribuzione per arrivare a sviluppare una visione del business e l'organizzazione necessaria a sostenerla. Si tratta di un manager con forte commitment e capacità di leadership, che abbia logica imprenditoriale, e che soprattutto creda nella missione e sia capace di vedere e di far vedere agli altri in modo innovativo gli spazi di competizione; che agisca per obiettivi con piani di azione realistici. Il manager viene di norma inserito a capo di una business unit dedicata o con incarichi specifici in staff alla Direzione Generale o al Consiglio di Amministrazione, stante la necessità di muoversi agilmente attraverso tutta l'azienda e di essere riconosciuto/legittimato da tutte le funzioni. Si parla di incarichi di durata minima di un anno.

La figura e la rilevanza dei provocatori sono stati quindi ripresi dal World Business Forum di Milano, assurgendo a tema conduttore di tutto l'evento, con un taglio molto più pratico ed operativo legato ad un interessante indagine, condotta insieme a Manageritalia, su un campione di circa 30.000 manager di aziende italiane.

Secondo la quasi totalità degli intervistati (97%) la provocazione serve è utile, specie se riesce a coniugare cambiamenti interni all'organizzazione con innovazioni di mercato/prodotto. Sempre però mantenendo un certo margine di sicurezza (nel 77% dei casi)!
Le soft skill che un buon provocatore dovrebbe avere e saper mettere in campo: introdurre una componente creativa anche in decisioni tipicamente razionali (33%), avere il coraggio - aggiungiamo: ma anche l'opportunità - di sbagliare (33%), la capacità di mettersi nei panni dei propri interlocutori clienti fornitori stakeholder (19%).

La percezione generale, leggendo i risultati analitici dell'indagine, è abbastanza ambivalente: da una parte, c'è una consapevolezza generalizzata della necessità di cambiare passo a qualsiasi livello, sia politico e macro-economico sia micro-economico.
Dall'altra, a fronte di dichiarazioni di fatto "politicamente corrette", la maggior parte dei manager riconosce di aver osato poco, o di aver potuto osare poco, nel corso della propria carriera (79%).
Un po' come i tanti manager che scoprono la vocazione al temporary management solo quando si trovano nella condizione di dover purtroppo cercare un posto di lavoro ...

 

 

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