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     n. 11 anno 2010

I manager non sono banane: certificazioni e bollini blu

di Maurizio Quarta

di Maurizio Quarta

La certificazione dei manager è prassi consolidata in molti paesi europei: in Inghilterra, ad esempio, costituiscono un punto di riferimento sia gli Standards of Good Practice for Board of Directors sia i Senior Management Standards, che hanno coinvolto centinaia di senior manager per arrivare alla definizione rigorosa degli standard di riferimento.

In Italia il tema è oggi alquanto caldo, stante anche la tendenza di molte associazioni manageriali a creare dei processi di certificazione per i propri soci.

Per quanto riguarda in particolare i temporary manager (nel seguito indicati come TMan), da una parte le imprese richiedono che qualcuno "garantisca" la qualità del TMan free lance (mentre se operano attraverso una società specializzata è quest'ultima a farsi carico della cosa), dall'altra molti manager pensano alla certificazione come una semplificazione dell'accesso al mercato.
Per esperienza diretta, posso dire che tra i manager il tema è molto più sentito tra coloro che si stanno avvicinando alla professione, rispetto a chi opera da tempo come TMan: mentre i primi, specie in tempi di crisi come l'attuale, sono in cerca di una sorta di bollino blu da utilizzare come elemento distintivo per aumentare la propria rivendibilità personale, i secondi, alcuni non senza un pizzico di snobismo, alla fin fine dicono "sono bravo, mi chiamano le aziende e le società specializzate ... una certificazione non mi darebbe poi grandi vantaggi". Come giustamente afferma Angelo Vergani in una recente intervista, si tratta di "un mestiere, che si impara soprattutto facendolo".

A fronte di questo gran fervore certificatorio, bisogna in primo luogo porsi la questione se sia possibile e che senso abbia certificare un manager e se esista un processo ideale da seguire. Nel caso di un manager è pressoché impossibile certificare la performance a causa dei tempi e dei costi necessari, senza considerare la complessità derivante dall'isolare le variabili indipendenti dal manager e influenzanti i suoi risultati (es. dinamiche di relazione, dipendenze interfunzionali, cambi di management).

Si possono però, sul modello anglosassone, definire dei modelli di competenze manageriali con i quali innescare un processo di accreditamento attraverso

  • la definizione di comportamenti chiave genericamente predittori di successo, quali priority setting, decision-making, leadership, comunicazione verbale e scritta, etc.
  • la definizione di comportamenti "chiave" propri di una data funzione o posizione (es. il concetto di leadership ha significati diversi in un contesto R&D rispetto ad uno commerciale); la cosa però diviene di fatto impraticabile per una certificazione trasversale o cross functional (molti TMan ad esempio)
  • l'evidenziazione, infine, di elementi quali onestà, senso etico, integrità, obiettività, riservatezza che è molto più ragionevole gestire attraverso un codice etico di condotta professionale cui i manager si obbligano ad aderire.

Ciò premesso, resta aperto il problema sul metodo da utilizzare. Scartata l'ipotesi di un esame (praticabile invece per posizioni più basse e più strutturate) sono disponibili diverse opzioni quali l'osservazione on the job, l'intervista approfondita abbinata a un reference check, la valutazione a 360°: in ogni caso il metodo dovrà essere rigoroso, credibile per il mercato, logicamente consistente e stabile nel tempo.

In assenza di riferimenti certi, una prima significativa indicazione può venire da una norma europea, la EN 45013, secondo cui la certificazione delle professionalità, che attesta che una determinata persona possiede i requisiti necessari e sufficienti per operare con competenza e professionalità in un determinato settore di attività, deve essere effettuata da una terza parte indipendente.

I requisiti e criteri che una organizzazione di terza parte indipendente deve possedere e applicare ai fini della certificazione di una classe di professionisti sono:

  • indipendenza, trasparenza, imparzialità e assenza di conflitti di interesse
  • partecipazione delle "parti del mercato interessate"
  • equilibrio nelle decisioni: non deve essere possibile che prevalgano singoli interessi
  • competenza e riservatezza
  • codice deontologico
  • durata delle certificazioni limitata e controllata nel tempo
  • concessione del rinnovo della certificazione (dopo 3 anni) solo se il professionista ha curato l'aggiornamento professionale previsto, ha continuato a svolgere l'attività professionale e ha rispettato il codice deontologico sottoscritto.

La norma ha il grande pregio di porre in primo piano alcuni principi di fondo, oggi più che mai importanti a fronte del crescente e già citato interesse per la certificazione da parte delle associazioni manageriali.

Certificazioni non di terza parte possono prestare il fianco a significative obiezioni relative all'assenza di conflitti di interesse, all' imparzialità e al coinvolgimento delle parti interessate. Infatti, per quanto un'associazione imposti un processo di certificazione con il massimo delle cautele possibili, esistono tuttavia delle condizioni oggettive di pressione "interna" che possono minarne oggettività e credibilità:

  • l'esistenza nei soci di una serie di atteggiamenti, del tutto logici e naturali per il loro status, di cui un'associazione deve comunque tenere conto ("ho pagato la quota per anni e la certificazione è un mio diritto", "perchè l'associazione deve certificare uno che non è socio e che non paga la quota?"). E' curioso notare che proprio queste erano le obiezioni di molti soci di ATEMA al processo di certificazione di terza parte che nel 2000 guidavo per conto dell'associazione
  • un'associazione ha delle esigenze specifiche come organizzazione, ovvero sviluppo associativo e mantenimento degli associati: in che misura esse sono compatibili con una certificazione "oggettiva" che come tale può non certificare certi soci deludendone aspettative e bisogni e quindi creando le condizioni per una loro uscita o per una loro non entrata?
  • è anche possibile che dietro un processo di certificazione si nasconda una logica mirata ad attrarre un numero sempre maggiore di soci che consente di acquisire peso negoziale e potere di lobby e quindi avviare un meccanismo perverso del tipo più soci = più lobby = più privilegi = più soci e così via?
  • in generale, uno statuto associativo prevede la difesa degli interessi dei soci, la loro rappresentazione in varie sedi o l'agevolazione dell'accesso al mercato: quanto ciò è compatibile con i requisiti richiesti?

Premesso che, a rigore, un'associazione dovrebbe certificarsi essa stessa prima di porsi come elemento certificatore, una veloce check list può aiutare i manager e il mercato a capire il reale valore di quanto viene loro proposto:

  • viene proposta una certificazione di terza parte a norma europea? e se no, perchè?
  • si tratta di un'operazione che in realtà vuole solo regolamentare il mercato, creando aree di privilegio in cui far lavorare solo i propri manager "con certificato"?
  • da chi viene nominato il comitato di valutazione dei manager?
  • esiste un meccanismo di valutazione e di accreditamento formale dei membri del comitato?
  • qual è il grado di riferimento operativo che i membri del comitato hanno con la professione oggetto della certificazione? Personaggi "esterni" (docenti universitari, giornalisti economici) in che misura sono chiamati a far parte di un comitato per soli motivi "cosmetici"?
  • le "parti del mercato interessate" sono rappresentate in maniera significativa?
  • si prevede che la figura di valutatore/certificatore possa essere ricoperta anche da un socio, con l'oggettiva difficoltà di depurare gli effetti di relazioni personali?
  • il processo di certificazione è aperto a tutti oppure è limitato ai soli soci o ancora è possibile attivarlo solo a seguito dell'iscrizione?
  • si vuole creare un registro apposito per i manager certificati? se sì, quali sono le modalità di gestione del registro?
  • quanto è strutturato il processo di certificazione? In generale è buona norma diffidare di certificazioni troppo veloci basate su interviste altrettanto veloci
  • esiste un meccanismo di certificazione della formazione cui i manager devono sottoporsi per mantenere vivo ed aggiornato il proprio patrimonio di conoscenze ai fini del rinnovo della certificazione?

Un'ultimo "problema aperto" sollevato recentemente in alcuni workshop tenuti con imprenditori e associazioni manageriali: posto che la maggior parte dei manager in mobilità proviene da aziende medio-grandi, mentre il grosso potenziale della domanda sta in aziende medio piccole, come garantire un corretto accoppiamento tra i due sulla base di competenze e capacità necessarie? La risposta, per nulla semplice e banale, ai certificatori.

Solamente una grande chiarezza su tutti i punti elencati potrà evitare che la certificazione dei manager venga banalizzata nello stesso modo in cui lo sono stati principi e valori della certificazione d'azienda in Italia e rendere interessante per le aziende uno strumento che porta con sè grandi benefici potenziali.

Poichè di bollini blu abbiamo parlato, è forse opportuno ricordare che i manager non sono banane, ma nemmeno le aziende sono piantagioni ...

 

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