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     n. 7 anno 2010

Il totalitarismo manageriale

di Luca B. Fornaroli, Management Consultant

Da qualche tempo sono affascinato da un esperimento - un vero azzardo intellettuale - che consiste nell'applicare alcune semplici categorie di Teoria dello Stato alla vita delle organizzazioni economiche e, in particolar modo, delle imprese.
Tutti convengono che la forma di stato prevalente nel mondo contemporaneo sviluppato sia, con diverse e, a volte, marcate sfumature, la democrazia liberale.
Ogni liberaldemocrazia si manifesta con la tutela delle libertà fondamentali di pensiero, parola, culto, espressione; il riconoscimento del diritto di una maggioranza liberamente eletta di governare; la tutela dell'opposizione; la difesa della proprietà privata e della libertà di impresa. A queste garanzie, a secondo del momento storico e della cultura politica di un paese, si aggiunge, in diversa misura, la promozione dei diritti economico sociali.

Nelle organizzazioni moderne, tuttavia, la libertà di impresa si manifesta con la creazione di modelli gestionali che non sono compatibili con l'idea di liberaldemocrazia, dando vita a contesti in cui la libertà dell'individuo e la sua creatività non sono al centro dell'attenzione del management dell'azienda né vengono particolarmente stimolate. Prevale piuttosto il conformismo, il premio alla sottomissione, il riconoscimento ed il rafforzamento della distribuzione di potere esistente all'interno dell'organizzazione.

Sorge allora la legittima domanda se possa ancora chiamarsi liberaldemocratica una società in cui la maggior parte delle persone che vi appartengono, i cittadini, da lavoratori, svolgono la propria attività in un contesto che non è né libero né democratico.
Il paradosso è stridente e l'incongruenza emerge di tutta evidenza: una cospicua percentuale della vita della maggioranza dei cittadini di un paese democratico si svolge in un contesto dove gli stessi non godono di una piena libertà non solo di azione, ma neppure di pensiero e non hanno modo di influenzare la presa delle decisioni.
Il regime prevalente in molte organizzazioni e imprese può essere assimilato, senza esitazione, grazie ai sistemi di controllo informatico, all'apparato burocratico, ai regolamenti interni liberticidi, all'utilizzo vincolato del tempo e alla gerarchia, ad un regime a tutti gli effetti totalitario.
Inoltre, le ragioni addotte alla giustificazione dei controlli, dello stile di leadership e delle regole interne da parte delle aziende e dei manuali di management sono le stesse utilizzate dai regimi totalitari nei confronti dei propri cittadini: la sicurezza dell'azienda, la tutela e lo sviluppo del lavoratore, la salute sul posto di lavoro. Si arriva persino all'invito alla delazione nei casi supposti di violazione del codice etico interno, come peraltro espressamente previsto dal modello organizzativo 231. L'intento è certamente nobile - la prevenzione o la segnalazione dell'eventuale commissione di reati - ma è significativamente lo stesso intento e la stessa modalità di realizzazione adottata da qualsiasi forma di autoritarismo. C'è pertanto qualcosa alla radice della formazione del benessere economico della nostra società che evidentemente non funziona, ma che fa capire come non ci sia né discontinuità né incongruenza tra un sistema politico autoritario o totalitario come quelli cinese, vietnamita, russo o malese e il sistema di produzione capitalistico.

La governance di un'azienda non può essere certamente assimilata ad un governo ed al suo potere esecutivo: gli amministratori, nell'ambito della normativa vigente nel paese dove l'azienda opera, avocano a sé il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, superando la separazione tripartita di Montesquieu nel suo magistrale Spirito delle leggi. Il management fa le regole, le fa rispettare e decide in modo accentrato e senza il vincolo di un sistema di check and balances. Occorre tuttavia dire che la necessità di un sistema di contrappesi al potere degli amministratori si sta lentamente affermando attraverso la riconosciuta autonomia degli organismi di sorveglianza e di controllo interno, laddove sono previsti.
Inoltre, l'azienda è caratterizzata da un potere decisionale spesso monocratico, rapido e tutto sommato da un basso grado di responsabilizzazione degli amministratori rispetto sia ai soci sia ai lavoratori. L'assemblea ha decisamente poco potere nei confronti dei consigli di amministrazione o ha un potere soprattutto formale poco incisivo e decisivo. In questo senso l'esperienza nordamericana è ancora più squilibrata a favore dei CEO di quella europea ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Un'azienda deve tuttavia poter godere di un processo decisionale ed esecutivo che non sia continuamente fondato sul consenso, sennò perde di snellezza e di competitività e si trasforma in un ircocervo burocratico-produttivo non dissimile dalle vecchie partecipazioni statali italiane, curiosamente tornate di moda anche all'estero.
Ci preme capire però se tale efficienza possa essere garantita attraverso un modello organizzativo diverso da quello esistente, in cui il management sia più responsabile nei confronti di soci e lavoratori e faccia un po' meno il bello ed il cattivo tempo. Soprattutto un modello in cui sia recuperata la dimensione della libertà di espressione e della dignità del lavoro.

L'introduzione di rappresentanti dei lavoratori (se necessario reclutati all'esterno dell'azienda) nell'ambito dei consigli di amministrazione, eletti sulla base di chiare competenze e motivazioni, colmerebbe il deficit di democrazia delle imprese a patto che i lavoratori stessi partecipino ai conferimenti in qualità di azionisti. In tal modo si svilupperebbe più chiaramente un senso di comunità reale e non fittizia quale sarebbe quella che vede i lavoratori come soci senza potere de facto. A questo proposito, sarebbe auspicabile una riforma della normativa vigente tesa ad una maggiore attribuzione di potere e di tutela a tutti i soci.
Il modello tedesco della mitbestimmung di 50 anni fa rimane un esempio straordinario di strumento di pacificazione e coesione sociale e, con i dovuti correttivi e le necessarie evoluzioni, potrebbe essere utilmente adottato su più vasta scala: sarebbe un buon modo di rispondere a quel bisogno d'etica di cui tutti cianciano, ma di cui nessuno è in grado di fornire elementi concreti, senza ingessare il dinamismo dell'impresa e del mercato che deve comunque essere salvaguardato e facilitato. Nondimeno, si recupererebbe una dimensione di legittimità e di accountability che renderebbe la vita in azienda più conforme ai principi di una società liberale e non di una satrapia orientale.

 

 

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