hronline
     n. 20 anno 2020

Uscire dalla confusione per trovare un nuovo ordine
Riflettendo sulle domande e le istanze di aiuto di imprese e HR

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Non dobbiamo preoccuparci
Confusione: termine che può rappresentare bene lo stato mentale nel quale si trovano imprese, manager e HR. Ci si deve preoccupare per questo? Direi di no se diamo una cornice di senso a quello che sta accadendo. Quando si è in uno stato di confusione? Quando si ha a che fare con "più cose o persone mescolate o riunite insieme alla rinfusa", segnala il dizionario Treccani. Una situazione che percepiamo come disordine, che ci restituisce un'immagine di scompiglio. Quando termina la confusione? Quando tutte le cose hanno trovato il loro posto, sono state ordinate o ri-ordinate. Quando succede si ritrovano benessere, equilibrio, serenità, controllo. Come potremmo non essere confusi, allora, in un tempo in cui tutto si muove, quando la "nuova normalità", come ormai si usa dire, viene posticipata nel tempo mentre siamo immersi in un esercizio che deve mettere ordine a scenari differenti anche in competizione tra loro? Quella che proviamo, dunque, é una sana confusione, sintomo che c'è una realtà da riordinare. Come? Ci sono due correnti di pensiero o meglio due atteggiamenti al riguardo.

Due atteggiamenti
Alcuni (più di quanti si possa immaginare) coltivano pensieri di "restaurazione", anche se sono pronti ad affermare che "nulla sarà più come prima". In cuor loro, in verità, immaginano che quando la pandemia sarà finalmente governata ritorneremo tutti al punto di partenza, dopo aver partecipato a una sorta di gioco dell'oca di massa che ci ha fatto soffrire, ma alla fine ce l'abbiamo fatta. Come nel gioco del Monopoli siamo stati in prigione dopo un regime di libertà vigilatae abbiamo dovuto rinunciare a gran parte della socialità. L'incubo però ora è finito e si ritorna al lavoro, ciascuno al proprio posto e sotto l'occhio vigile del boss che nel frattempo è tornato come prima. Si ristabiliscono orari e turni, regole per entrare e per uscire, pause pranzo e turnazioni per andare a mensa. Non solo, viene tolta anche la polvere che si era nel frattempo accumulata sugli obiettivi dell'anno che ora vanno aggiustati per tener conto dell'accaduto, riprendono i meeting e le chiacchiere davanti ai distributori di bevande, snack e caffè, si calendarizzano colloqui di feedback. L'ordine che dovrebbe mettere fine alla confusioneè così ristabilito.
Altri invece (sono la maggioranza) pensano che immaginare che l'esperienza fatta sia stato soltanto un gioco non ha senso soprattutto, non è realistico. Pensano invece che il Covid-19, il lockdown e il distanziamento, il lavoro da remoto forzato ci stiano dicendo che l'organizzazione del lavoro così come l'abbiamo costruita nel tempo andrà messa buona parte in soffitta. Solo che non sanno visualizzare ancora bene quale sarà il nuovo modello di lavoro che prenderà il suo posto e neanche il modello manageriale che orienterà chi guida e organizza il lavoro altrui. Sono consapevoli però di questo: che dallo smartworking dell'emergenza passeremo a una nuova stagione, quella dello smartworking strutturale in cui ciascuna impresa sceglierà il modello che più riterrà appropriato al proprio contesto culturale, di business e operativo. Sono anche consapevoli, proprio in virtù del profondo cambiamento in corso, che tutto questo andrà disciplinato, dialogano con i sindacati per condividere lo scenario strategico-organizzativo più coerente e le regole per governarlo. Ci sono naturalmente aspetti che li preoccupano, tra questi l'atteggiamento che potrà assumere il management. Si rendono conto infatti che sarà possibile trovare un nuovo ordine soltanto grazie a un diverso mindset di leader e manager capace di accogliere e dirigere il nuovo. In questo scenario si interrogano allora sul nuovo significato che avranno gli obiettivi in un contesto nel quale una parte consistente dei collaboratori lavoreranno per giorni, forse settimane, con flessibilità, autonomia e con il diritto alla disconnessione. Si rendono conto che ora la fiducia deve diventare comportamento, dovendo qualificare un diverso stile di leadership e poter diventare addirittura oggetto di valutazione ai cui esiti ancorare la nuova carriera manageriale. Le imprese, così, in quest'epoca segnata dagli spazi temporali che vanno da un DCPM all'altro, assomigliano a un operoso e frenetico cantiere di riflessione e progettazione popolato da gruppi di lavoro e task-force inter-funzionali che hanno il delicato compito di far dialogare fra loro almeno tre prospettive: quella tecnologica e della trasformazione digitale, quella della gestione degli immobili e delle facilities (e le ricadute finanziarie), quella dei collaboratori e delle loro variegate istanze familiari, organizzative e professionali.

Dove trovare le risposte?
Se ripercorro i fili che intrecciano la mia esperienza non credo di ricordare un periodo così complesso. Come consulente e coach ascolto e osservo tutto questo quotidianamente. Sento, dietro la comunicazione pubblica e le sue regole, che il cuore di manager e HR soffre di aritmie; talvolta prevale un battito lento dettato dalla riflessione che cerca risposte sapienti anche prendendosi cura delle conseguenze di medio-lungo periodo; talaltra, invece, ha la meglio un battito veloce imposto dall'esigenza di mettere fine, entro tempi certi e rapidi, allo scompiglio creatosi. Tutto normale dunque. Non c'è da preoccuparsi nemmeno di questa aritmia. Non possiamo però sciupare quest'occasione che deve generare consapevolezza diffusa riguardo a quello che sta accadendo e ai suoi possibili esiti. Quando i team HR ci chiedono risposte non ho timore a dir loro che queste risposte non ci sono perché vanno costruite. E che possiamo aiutarli proprio in questo: nel costruire interventi che accrescano consapevolezza dei manager, dei team HR e dei collaboratori su quello che sta accadendo, facilitandoli a visualizzare contesti, situazioni, comportamenti da sperimentare insieme.

Corriamo un rischio: pensare alla possibilità di un doppio regime
Non c'è dunque motivo di preoccuparsi, c'è necessità però che dai cantieri escano progetti che coinvolgano direttamente i protagonisti della trasformazione per sottrarli dagli effetti a volte soporiferi di questo tempo sospeso. Soprattutto per allenarli al nuovo e ai rischi che si corrono. Tra questi ce n'è uno in particolare: immaginare che potranno coesistere due stili di direzione, due modelli manageriali, due forme di organizzazione del lavoro diverse a seconda che si stia a casa o al lavoro. Qualunque scenario organizzativo le imprese sceglieranno non potranno pensare di esporre manager e collaboratori a una sorta di doppio regime: quello che indossa gli abiti del controllo e delle regole rigide, quello invece avvolto nel manto leggero dellaflessibilità e autonomia. È possibile immaginare un'impresa dove si lavora avendo dotato le persone di un interruttore on-off, capace di switchare atteggiamenti, motivazione, comportamenti, impegno e tanto altro da una modalità a un'altra in funzione del luogo dove si lavora? È realistico? Credo in tutta onestà che pensarlo significherebbe mettere a rischio l'impresa e il benessere di chi ci lavora. Pensare a un doppio regime vorrebbe dire facilitare un pensiero disorganizzato, caotico, dove le idee e i comportamenti non sono logicamente collegati tra loro: in perenne confusione. Genererebbe situazioni schizofreniche e alterazioni di atteggiamenti e comportamenti. Quale senso di appartenenza potrebbe svilupparsi? Quale commitment potrebbe alimentare una situazione in cui, a seconda di dove si lavora, chiede di passare - come se manager e collaboratori fosserotanti elettrodomestici - dalla modalità A alla B? Quale sarebbe la loroidentità?

Facilitare la trasformazione
Insomma, qualunque sia lo scenario organizzativo adottato bisognerà mettere mano a un processo di trasformazione nel quale, più che immaginare un passaggio da A a B, sarebbe più efficace pensare, progettare e implementare un percorso di co-costruzione della nuova realtà. Solo quest'approccio riuscirà a rimettere in ordine le cose, ad assegnare un posto al lavoro e al nostro modo di atteggiarci nei suoi confronti. Solo allenandosi a questo nuovo ordine e partecipando alla sua definizione, che mette fine alla confusione da cui siamo partiti, i manager si sentiranno nuovamente protagonisti nel lavoro. Vale la pena tentare.

Gabriele Gabrielli
Executive coach, consulente e formatore è Consigliere delegato di People Management Lab S.r.l - Società Benefit e BCorp.Ideatore, co-fondatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersonainsegna Organizzazione e gestione delle risorse umane all'Università LUISS Guido Carli.
Contatti: direzione@peoplemanagementlab.it
 

 

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