hronline
     n. 15 anno 2015

Il counseling nelle relazioni del lavoro

di Massimo Crucitti

Da alcuni anni nel mondo della consulenza aziendale si sta facendo strada una parola di origine anglosassone: "counseling" o "counselling" (versioni americana e britannica).
Tempo fa il direttore hr di un grosso gruppo nazionale mi chiese informazioni sul counselling e la mia spiegazione fu molto convincente perché il direttore mi invitò a preparare una proposta, quello che poi risposi mi fece perdere l'opportunità d'incarico ma era deontologicamente inevitabile: spiegai che il counselling non poteva svolgersi secondo le tradizionali modalità di consulenza, formazione o psicologia del lavoro, nel counselling dobbiamo essere certi che il cliente (per cliente intendiamo l'utente che usufruisce del servizio) scelga liberamente di essere lì da noi e in qualsiasi momento può decidere di interrompere gli incontri.
A sua volta il counsellor deve essere libero di esplorare col cliente qualsiasi argomento possa essere connesso al problema senza sentirsi condizionato da richieste che non siano quelle del cliente.
Il counsellor non instaura una relazione di potere ma si posiziona come "non esperto" e non ci darà mai consigli per risolvere il nostro problema, il cliente è il miglior esperto del suo problema ma in quel momento non riesce a prendere una decisione perché si trova di fronte a dilemmi che mettono in crisi il suo sistema di pensiero.
Il counsellor è esperto nell'aiutarci ad uscire dalla nostra crisi cognitiva, di solito queste crisi ci mettono sotto scacco perché utilizziamo modelli di pensiero che in passato ci hanno aiutato ma in quella nuova problematica non funzionano e dobbiamo inventare qualcosa di nuovo, abbiamo quindi bisogno di introdurre un punto di vista diverso, il counsellor deve avere la capacità di entrare in relazione con noi usando un adeguato linguaggio e, attraverso questa franca relazione, portarci ad esplorare nuove possibilità e nuovi punti di vista.
Al termine del primo incontro i clienti capiscono finalmente cosa sia il counselling e spesso mi dicono che io sono per loro uno specchio fedele nel quale riescono a vedersi da molteplici angolature.
E' una metafora che apprezzo molto e aggiungo che quello specchio, proprio per la sua fedeltà, è anche feroce nel riflettere le parti scomode ma è il prezzo della verità, se invece preferiamo evitare le cose che ci danno fastidio paghiamo il prezzo di fare scelte che hanno lo scopo di occultare le cose spiacevoli, impedendoci di affrontarle, col risultato di affondare sempre più nei guai.

Come potrebbe aiutarci il counselling nel mondo del lavoro?
Ecco un dilemma dal quale adesso devo uscire io, quindi vediamo come se la cava un counsellor alle prese con un suo problema.
Dobbiamo introdurre una novità, abbiamo detto che il cliente deve essere libero di scegliere il servizio e non ci deve essere ingerenza da parte della sua azienda, il dilemma si pone perché l'azienda ha diritto di verificare se ha speso bene i suoi soldi e se il professionista ha fornito un servizio adeguato, il counsellor invece viene valutato da due sole persone: il cliente e il supervisore.
Il cliente, in qualità di massimo esperto, è il supremo giudice, l'unico che può dirci se ha ricevuto benefici dall'incontro.
Il supervisore è una persona che fa counselling al counsellor per permettere a quest'ultimo di giudicare il proprio lavoro.
Riassumendo, nel mondo del lavoro ci sono senz'altro problematiche relazionali e il counselling potrebbe essere un servizio utile ma, poichè il contesto del lavoro non è libero, il counselling non può essere erogato se non si trova una soluzione che permetta di operare liberamente.

Io per adesso ho individuato tre strade, le condivido in questo articolo facendo felici tutti i counsellor che ancora non hanno trovato soluzioni.
La prima è quella di uscire molto semplicemente dal contesto lavorativo: le problematiche di relazione sul lavoro verranno affrontate in colloqui individuali presso lo studio del counsellor, la parte economica dovrebbe essere a carico del cliente ma potrebbe essere anche un benefit offerto dall'azienda, essendo un benefit a scelta tra gli altri è il cliente che decide se utilizzarlo e questo permette un corretto rapporto col counsellor.
La seconda è quella di inserire colloqui di counselling all'interno di un progetto di consulenza più ampio, in questo caso la valutazione viene fatta sull'insieme del progetto, si valutano i risultati finali che possono essere molto concreti (per esempio l'indice di produttività) ma non sono direttamente correlati all'attività di counselling e quindi non la condizionano.
La terza consiste in gruppi eterogenei facilitati da un counsellor con esperienza sulle relazioni del lavoro. E' una situazione neutrale sotto tutti i punti di vista, la location è temporanea, il colloquio non è riservato ma consente l'interazione e il confronto con le stesse problematiche vissute da altre persone, verso l'azienda si configura come un corso fuori sede e in questo caso possiamo anche fornire una valutazione sullo sviluppo delle competenze interpersonali limitata al processo di apprendimento, senza entrare nel merito delle tematiche personali.

Alcune di queste soluzioni le sto applicando con risultati confortanti, ma ancora non mi sento di esporre risultati ufficiali, le ipotesi devono essere sempre confutate dalla realtà e modificate di conseguenza, quindi credo che ancora non esista una soluzione di counselling aziendale totalmente libera da vizi di ordine deontologico, ma vi prometto che proseguirò nelle mie ricerche e appena avrà preso forma qualcosa di maturo lo condividerò volentieri.

Massimo Crucitti
www.manualeoperativo.com

 

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