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     n. 17 anno 2015

Capi senza volto?

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Nei luoghi di lavoro la dimensione relazionale è da sempre ritenuta importante. Appare subito decisiva, appena entri a far parte della vita organizzata di un'impresa e costruisci momento dopo momento, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola il primo contratto psicologico. Uno schema mentale destinato a mutare anche profondamente nel tempo, a rinsaldarsi auspicabilmente, ad aprirsi per contenere nuovi impegni se le aspettative che incorpora non saranno tradite dalle relazioni, dalla fiducia che si instaura con il capo e, tramite questa via, verso l'impresa stessa. Può invece scadere, scivolare o precipitare lungo un percorso accidentato fatto di delusioni, tradimenti e assenza di sguardi che lo fiaccano, privandolo di ogni energia e capacità generativa. Per queste ragioni sono solidi investimenti in formazione manageriale quelli che mirano ad accrescere la consapevolezza di capi e responsabili proprio su questa dimensione critica, sulle sue dinamiche, soprattutto sulle implicazioni che ha per la fluidità della vita organizzativa, sul clima, sulla motivazione e performance delle persone. Anche sulla loro salute. Cattive relazioni con i capi e con i colleghi, infatti, possono farci stare male mettendo in pericolo la nostra salute psichica e fisica. Le relazioni tuttavia sono decisive anche per altro. Un recente studio della Society for Human Resource Management (Research Report - Top Job Satisfaction Aspects, 2014), condotto su un esteso campione di lavoratori, ha individuato tra i fattori « top » della soddisfazione lavorativa i seguenti : l'importanza di essere trattati con rispetto; la fiducia nei riguardi del senior management; il rapporto con i capi. Che vuol dire? Che il significato di benessere si sta ampliando significativamente segnalando l'importanza, oltre che delle componenti di soddisfazione più conosciute come la remunerazione, la sicurezza, l'autonomia e la possibilità di valorizzare le proprie competenze e attitudini, il livello di partecipazione e coinvolgimento, anche quella dei beni relazionali come la fiducia, il rispetto, la reciprocità, che sono la strada maestra per la ricerca del bene comune e della felicità. Tali beni trovano fonte e nutrimento nella condivisione e interazione con l'Altro, specchio in cui possiamo vedere il nostro volto e trovare ri-conoscimento. Solo nella relazione può nascere e svilupparsi autenticamente la nostra vita organizzativa, solo nell'essere trattati con rispetto possiamo trovare riconoscimento come persone. Al di fuori della relazione, che crea anche legami duraturi, non c'è cooperazione, materiale costitutivo dell'organizzazione e del management. Massimo Recalcati, nel libro Le mani della madre (Feltrinelli, Milano, 2015), scrive pagine bellissime che possono aiutarci a intuire le implicazioni dell'Altro proiettandole nei luoghi di lavoro. Riprendendo il pensiero di Jacques Lacan ricorda questo esperimento: "Se a una madre viene affidata la consegna di non reagire alle perlustrazioni e ai segnali emotivi con i quali il suo piccolo entra in rapporto con il suo volto, dopo una certa perplessità e una certa delusione il bimbo inizierà a manifestare veri e propri stati di angoscia" (37-38). Consentendoci la libertà di un'analogia, anche nel lavoro non possiamo sopportare l'assenza di risposte, il volto di chi ci guarda senza incontro e riscontro, un volto privo di segni, trasparente, non una parola, senza il dono generativo di un feedback che apre nuovi mondi. Un fenomeno alquanto diffuso e messo in luce da tante storie che si ascoltano. Comportamenti talvolta vantati, non mostrare il volto, come espressione competente nell'uso di tecniche per governare e tenere sotto controllo il gruppo affidato. In verità, appaiono in tutta la loro disumanità e non conformità alla nostra più profonda identità che è relazionale. Un'identità così potente e multiforme che non si lascia stringere in un angolo, per esempio in quello del lavoro, perché è sempre pronta a trovare le vie per esprimersi pienamente. Se la vita si costituisce con l'Altro, infatti, gli individui spingeranno le organizzazioni a ricercare le condizioni utili a permettere loro di far coltivare i beni relazionali. Quanti lavorano apprezzeranno sempre più le imprese che assecondano questo desiderio fornendo testimonianza con adeguate risposte e pratiche. La restituzione da parte dei collaboratori prenderà la forma di un maggior coinvolgimento e impegno, di una solida fiducia nei riguardi dell'impresa e dei suoi leader. Ci sono studi che supportano quest'idea, ossia che le persone stanno bene se il lavoro offre concrete opportunità per prendersi cura anche degli "altri", consentendo loro di assumersi pienamente le responsabilità generate da legami familiari, dagli affetti, dalla volontà di farsi carico delle fragilità che le circondano (Budd J.W., Spencer D.A., "Worker well-being and the importance of work: Bridging the gap", European Journal of Industrial Relations, Sage, 2015, Vol. 21(2) 181-196). L'organizzazione del lavoro e le condizioni in cui esso si realizza vengono così "misurate" non soltanto nella prospettiva di quanto consentano effettivamente di ottenere un bilanciamento tra vita privata e vita professionale, ma anche se sono in grado di rispettare il desiderio dei collaboratori di prendersi cura più in generale del benessere altrui. Le persone stanno bene, e svilupperanno probabilmente più intensi comportamenti di cittadinanza organizzativa, quando possono servire con il proprio lavoro anche la comunità in cui vivono, i suoi cittadini, il territorio dove l'impresa è nata e cresciuta. La dimensione relazionale in questo modo diventa infrastruttura di senso e fonte di nuovi significati per il lavoro. Una nuova sfida per precisare e allargare i contorni delle imprese responsabili.

Gabriele Gabrielli, docente Università LUISS Guido Carli
twitter@gabgab58
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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