hronline
     n. 3 anno 2014

Cosa sappiamo fare?
Il lavoro HR come curiositas e passione per l’insieme

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Sto riflettendo da tempo su un tema che provo a condividere partendo da una domanda. Se mi si chiedesse di raccontare l'impressione più forte che traggo dall'incontro con colleghi e amici impegnati in qualche ruolo di direzione delle risorse umane, di people caring o di sviluppo, come risponderei? Quale sarebbe il tratto più caratteristico del loro muoversi nelle imprese e del loro impegno, quale l'approccio che più colpisce? Mi sentirei di dire un'inquieta ricerca di qualche strumento facile da applicare, già sperimentato con successo, dai ritorni immediati. Aggiungerei anche il poco interesse che traspare per l'analisi delle dimensioni rilevanti per comprendere l'utilità o l'inutilità dello strumento che cercano. Dopo questi incontri -qualche volta strutturati, altre volte occasionali- torno sempre a interrogarmi su quanta consapevolezza ci sia di questi comportamenti. Le loro ragioni sono conosciute e condivise, perché abbiamo vissuto e viviamo tutti in prima persona contesti organizzativi complessi. Certamente c'è la pressione che viene dall'alto, dai vertici dell'impresa, che urlano la necessità di risultati per poterli esibire al mercato, in avida attesa di elementi utili per strutturare la prossima speculazione e dispensare in modo selettivo benefici e premi. A questa pressione si accompagna anche il timore - ben comprensibile - di essere messi da parte, sacrificati sull'altare che ospita quanti non sono riusciti a far cambiare l'azienda. Cosa si dovrebbe fare del resto? La vita vera sembra non concedere tempo alla riflessione, richiede risposte immediate. E' anche vero però - continuano gli interlocutori - che così non si può reggere a lungo, anche perché a forza di venire sbattuti in qua e là e di essere messi in mezzo si rischia di venire schiacciati e diventare un coccio rotto. E poi, è davvero questo il nostro mestiere? Qualcuno si spinge più in là e afferma con tono interrogativo: se è questa la business partnership che predichiamo, non vedo l'ora di cambiare mestiere e dovrò presto cercarmene un altro, anche perché siamo sicuri che serva a qualche cosa? Noi però cosa sappiamo fare? Già, che sappiamo fare? E' una domanda molto seria che lascia trasparire sentimenti di scoramento, alimentati da quei bisogni di sicurezza cui solo la "specializzazione", cioè il poter esibire una preparazione eccezionale in qualche settore, sembra garantire una risposta rassicurante. Eppure ci chiamano "specialisti", talvolta anche con toni un po' sprezzanti e carichi di un giudizio di marginalità del nostro apporto. Allora dov'è il problema? Abbiamo un nostro campo di sapere, conoscenze, strumenti e tecniche che dovremmo coltivare con cura e convinzione. Forse non basta. Propongo due spunti al riguardo. Il primo attiene alla struttura personale di chi fa il nostro mestiere; il secondo invece chiama in causa il posizionamento e la strategia da seguire per continuare con passione a voler curare le complesse dinamiche che intrecciano persone, gruppi e organizzazioni. I saperi (e le loro tecniche) rischiano di diventare aridi se non sono alimentati con continuità dalla curiositas. Per fare un esempio: l'analisi di clima non è un prodotto statico, bisogna metterla alla prova delle sfide dell'organizzazione e per questo occorre riaggiustarne il profilo, personalizzarla in funzione delle "emergenze organizzative" ascoltate e che si vogliono indirizzare. La curiositas porta sempre con sé tanta fatica, perché ti costringe a convivere con l'idea che "c'è sempre qualche cosa da riordinare" e meritevole di altro tempo e nuovi investimenti. La curiositas contiene il principio attivo del "non accontentarsi" di un prodotto acquistato e sperimentato; la curiositas per sua natura mette in discussione ciò che è standard, non si accontenta di "pacchetti" a basso costo e bassa intensità di coinvolgimento progettuale, ricerca invece nuove vie per prefigurare risposte inedite, percorsi meno illuminati dalla luce - quella del "tutti usano questo" - che può costituire un limite allo sviluppo organizzativo e alla soddisfazione personale e professionale. Se un'impresa si vuole impegnare nel progettare strumenti per rendere fertile la convivenza di persone di diversa età - sfida ancora tra le più inascoltate e che può rappresentare un buon esempio - non può affidarsi al noto, ma deve investire in ricerca e co-progettare un'analisi di clima (chiamiamola così) o comunque uno strumento di ascolto capace di cogliere in profondità questa prospettiva. La curiositas non può fare a meno, dunque, di una dose di coraggio, questione che mi porta dritto al secondo spunto. Che sappiamo fare, ci domandiamo; aggiungerei anche "dove" vogliamo stare e con quale posizionamento. Sono profondamente convinto che le inquietudini di questo mestiere siano proprie di quanti stanno sul confine. Dove si è contemporaneamente da una parte e dall'altra, dove si respira a pieni polmoni apertura e incertezza; voglia di mettere insieme e contaminare diversi saperi, tecniche e conoscenze. Per questo dobbiamo essere capaci di cogliere il quadro d'insieme e non essere attratti solo dal "proprio". Nel nostro futuro ci sarà sempre più bisogno di guardare la luna piuttosto che concentrarsi sul dito che la indica - scrive Giuliano da Empoli (Contro gli specialisti, Marsilio, 2013) - "com'è nella natura degli specialisti". La forza per far questo dovremmo trarla dalla consapevolezza - e quello che facciamo l'accresce certamente - che il mondo non si controlla né si cambia solo con la conoscenza di un ambito. Occorre altro. Nel nostro orizzonte c'è "la rivincita dell'umanesimo" fatta di saperi diversi, di possibilità, di quel progresso culturale e morale su cui anche le imprese dovrebbero essere sempre più impegnate e misurate.

Gabriele Gabrielli, docente Università Luiss Guido Carli
twitter@gabgab58
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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