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     n. 5 anno 2013

Cittadinanza, sviluppo e lavoro

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

E' trascorso un anno da quando Roberto Benigni, in occasione della giornata conclusiva delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, ha richiamato alla nostra memoria questo pensiero di Giuseppe Mazzini tratto dai suoi Doveri dell'uomo:
"La Patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La Patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale - finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati - finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria - voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la Patria per tutti.
Il voto, l'educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate".
Uno scritto di straordinaria attualità che consente una riflessione, prendendo spunto dalla "colonna fondamentale" del voto, sulla partecipazione dei cittadini, sulla sua dimensione e qualità. In verità è una colonna che appare logora e rovinata dall'incuria. In più parti. Malgrado la partecipazione rappresenti un pezzo forte del pavimento su cui vive e prospera il benessere di un Paese. Può essere declinata in tanti modi perché ha molte prospettive. Quando c'è partecipazione la società civile e le istituzioni sono vive. Le imprese generano idee, così come le università. Quando ce n'è poca si respira un'aria asfittica. Dappertutto. Quando viene meno poi, vuol dire che anche la libertà è perduta perchè, canterebbe Giorgio Gaber, "libertà è partecipazione". Possiamo dire ancora che il livello di partecipazione dei cittadini alla vita politica, quello delle famiglie e degli studenti all'organizzazione e al funzionamento delle scuole, quello dei lavoratori all'andamento delle imprese individua tre ambiti importanti per misurare la salute e il buono stato di questa "colonna". E‘ una valutazione assai complessa da fare, anche perché ci sono segnali contraddittori in tutti gli ambiti. In generale, però, l'idea che abbiamo è che ci sia un gran lavoro da fare per rimuovere gli ostacoli, di ordine culturale, economico e sociale, che possono frapporsi a una piena espressione della partecipazione in tutti i campi. Un esempio per tutti è quello della partecipazione degli immigrati e dei loro figli. Sul pavimento del nostro Paese c'è un masso enorme che ostacola la partecipazione degli uni e degli altri alla vita del nostro territorio, base per la costruzione di una comunità civile e politica. La questione delle regole per riconoscere la cittadinanza agli stranieri, infatti, pesa come un macigno sul presente e ancor più sul futuro. L'acquisizione della nazionalità, quando non avvenga per ius sanguinis, "è un percorso a ostacoli" (Maurizio Ferrera, "Ius scholae", Corriere della Sera, La Lettura, 10 febbraio 2013). Poco importa essere nati nel nostro territorio (ius soli), così come non interessa che si condivida la medesima cultura (ius scholae). Il processo di naturalizzazione nel nostro Paese è da rivedere profondamente, perché così com'é risulta anacronistico, distante dalle politiche degli altri paesi europei e, soprattutto, serio ostacolo per lo sviluppo. Gli appelli ripetuti del Presidente della Repubblica in tal senso dovrebbero far vibrare la coscienza di tutti, a cominciare da quella della politica e tramutarsi in responsabili azioni che stentano però a prendere forma, ostacolate da interessi e pregiudizi. Scandalosa è la situazione in cui versano centinaia di migliaia di bambini figli d'immigrati che sono nati nel nostro Paese, frequentano le nostre scuole, parlano la nostra lingua e i nostri dialetti ma non sono cives. Il pregiudizio verso l'altro, il diverso, lo straniero è ancora molto forte, ma questo macigno va tolto e in fretta, perché il rischio è che sotto il suo peso il pavimento sprofondi, trascinando con sé ogni programma di crescita. Questa, anche a volerla ridurre al significato angusto di sviluppo economico con i suoi miopi indicatori, passa per l'energia di tutte le persone, la passione civile di chi abita il territorio, la motivazione e progettualità di chi vuol lasciare ai figli una società migliore e più giusta, il lavoro come espressione di creatività e servizio. La crescita guarda al futuro e richiede sostenibilità. Come si può pensare seriamente a un programma di sviluppo senza politiche inclusive? Che risposta abbiamo per i nostri figli e i nipoti?

Gabriele Gabrielli, Università LUISS Guido Carli
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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