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     n. 9 anno 2012

L’urlo del lavoro che manca

di Gabriele Gabrielli – Docente Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli – Docente Università LUISS Guido Carli

L'affanno cresce. Pare non voglia prendersi una sosta, nemmeno una piccola pausa, almeno per incoraggiare quanti se ne stanno occupando. La marcia rumorosa delle notizie che ci urlano addosso che il lavoro non c'è continua senza tregua. E' accompagnata da gesti drammatici e disperati, al nord come al sud. E' un urlo che fa male e che dovrebbe straziare tutti, dalle istituzioni alla società civile, dal sistema educativo alle famiglie, dalle imprese ai sindacati e ai lavoratori. Chissà come Edvard Munch avrebbe rappresentato questo dolore, con quali forme e colori, se con il pastello o altro! Se fosse stata comprata, questa opera dell'arte moderna magari avrebbe stabilito un nuovo primato, superando la vendita record all'asta, presso la casa Sotheby's a New York qualche giorno fa, del celebre "Urlo" del pittore norvegese per 120 milioni di dollari. E' paradossale, ma proprio nel momento in cui le componenti politiche, sociali e civili del Paese sembrano essere d'accordo - seppur con diverse sfumature e accenti - che la vera priorità è il lavoro, questo continua a dare segni di cedimento. Sembra quasi di essere prigionieri di un incantesimo e di giocare a un cinico e terribile gioco al nascondino. Tutti sembrano volersi adoperare per accrescere il lavoro - in qualità e quantità - con misure ordinarie e straordinarie, con riforme strutturali e non, ma il lavoro fugge e si nasconde. E il lavoro, o meglio la sua mancanza, come gli angeli neri della malattia, della follia e della morte che si affacciavano sulla culla di Munch, prorompe minaccioso da tutte le parti urlando e ferendo sia nella cronaca fredda delle statistiche, sia nella vita di tutti i giorni fatta di persone in carne e ossa. La disoccupazione sfiora ormai il 10%, un tasso che non si conosceva da molti anni; quella dei giovani tra i 15 e i 24 anni, che supera il 35%, rischia di strozzare definitivamente le speranze già erose di figli, nipoti, studenti. Sembra proprio una frana che travolge tutto, non risparmia niente e nessuno. Nemmeno i carcerati. Perché l'ultimo Rapporto dell'Associazione Antigone (www.osservatorioantigone.it) evidenzia come anche tra i carcerati aumentino i disoccupati. Diminuisce infatti il budget per la remunerazione dei detenuti lavoratori (mercede) e quello per incentivare le assunzioni dei carcerati da parte di cooperative sociali e imprese. Anche per questi c'è il diritto al lavoro, che non ha carattere afflittivo, essendo uno strumento di rieducazione e di reinserimento sociale. Ci si domanda allora cosa fare e da dove cominciare. Nessuno in verità può avere risposte esaustive di fronte a una questione così complessa che è alimentata da una serie innumerevole di fattori interconnessi. Non vi è dubbio però che tutte le energie vadano concentrate con uno sforzo comune e senza infingimenti in questa direzione. Con interventi a tutto campo, ma con una visione e una lettura chiara delle trasformazioni culturali, economiche e sociali. Le componenti che contribuiscono a celare il lavoro, infatti, sono molte come si diceva, alcune più rilevanti, altre meno. Alcune vengono da lontano, altre trovano origine negli ultimi anni. Tra le prime, forse la più insidiosa è quella culturale e formativa. Non è la competizione selvaggia, l'individualismo sfrenato e le altre invenzioni dell'ideologia del mercato che possono creare occupazione e lavoro di qualità, cioè dignitoso e decente secondo il significato universale attribuito a questo termine dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro di Ginevra (www.ilo.org). Per questo occorre impegnarsi con coraggio e senza timore coltivando nei più giovani la voglia di lavorare non solo per sé ma anche per gli altri; per testimoniare e discutere con i più senior - scottati da ristrutturazioni e dalle logiche del tornacontismo - che l'economia senza elementi di gratuità non ha futuro. Per riorientare l'educazione di un management formatosi alla scuola della sola ‘tecnica' e che- prima o poi - sperimenterà la lama fredda dell'ideologia che ha servito dimostrando eccellenti competenze di execution. Occorre mettere mano a una nuova educazione che ci aiuti a comprendere - e a praticare - che non c'è organizzazione e gestione sostenibili senza relazioni e valorizzazione di legami, storie e emozioni. C'è necessità - come scrive Pier Luigi Celli su Il Sole 24 Ore del 5 maggio - di ricomporre "un tessuto relazionale in cui alcuni valori condivisi tornino a segnare il percorso e ad orientare comportamenti civili, prima ancora che economici". Scuole e università, imprese e business school possono e devono fare la loro parte. Ma prima ancora, forse, possono e debbono farla politici e amministratori, insegnanti e docenti, imprenditori e manager, genitori e cittadini, con coraggio e da subito.

Presidente Fondazione Lavoroperlapersona - www.lavoroperlapersona.it

 

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