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     n. 8 anno 2011

Patologia della leadership e del management

di Andrea Castiello d'Antonio, Psicologo del lavoro, consulente di management, professore straordinario Università Europea di Roma

di Andrea Castiello d'Antonio, Psicologo del lavoro, consulente di management, professore straordinario Università Europea di Roma

E' costantemente sottovalutato il potere distruttivo che può avere un responsabile la cui personalità non sia "sufficientemente sana" non solo sull'ambiente socio-organizzativo di immediato impatto, ma anche sul business globale dell'organizzazione in cui opera.
In effetti, ancora oggi di fronte a comportamenti manageriali aberranti e a stili di leadership altamente destabilizzanti (per le persone che li subiscono) si sente spesso affermare che comunque, dopo tutto, "Quel manager è un bravo professionista!", un buon conoscitore dell'azienda, lavora molto ed è sempre disponibile... Tradotto in altre parole, si preferisce chiudere gli occhi sulle componenti soft dell'uomo-al-lavoro, privilegiando elementi pur importanti - quali la capacità tecnico-professionale, l'attaccamento all'azienda, la disponibilità al lavoro - che però nulla hanno a che vedere con la (relativa) sanità mentale e comportamentale della persona che occupa un ruolo di responsabilità.
Leader e manager sono collocati "al centro" delle unità organizzative, "ai vertici" delle piramidi aziendali, ed il loro modo di fare, di agire, di comunicare, è osservato e percepito da numerose persone, ed ha un impatto notevole nell'ambiente socio-organizzativo. Manager maleducati, mentalmente ottusamente chiusi, comportamentalmente aggressivi e invasivi, motivazionalmente distruttivi, non dovrebbero idealmente esistere in un mondo del lavoro - anni Duemila - orientato necessariamente al futuro e alla qualità/salubrità della vita, e della vita di lavoro. Stili di leadership che possono avere un senso in circostanze assai specifiche - o che potevano avere una ragione in anni passati - sono oggi del tutto fuori contesto e fuori obiettivo, ma rimangono altamente presenti e pervasivamente attivi a causa della generale arretratezza della cultura manageriale nella quale viviamo. Eppure, nel momento in cui si parla di psicopatologia della leadership e del management, si va molto, molto più in là dal denunciare la negatività degli stili di gestione autoritari o permissivi, lassisti o confusivi, che tutti noi conosciamo per averli studiati fin dagli Anni Cinquanta sui libri della letteratura statunitense. Oggi, le sottili patologie che stanno alla base delle "personalità malate" di numerosi responsabili d'azienda sono, innanzi tutto, poco visibili e spesso, facilmente scambiabili per tratti caratteriali positivi e di pregio! Così un soggetto duro ed aggressivo può essere visto come assertivo e finalizzato, un personaggio manipolatorio e cinico come uno abile nella negoziazione, e così via, peraltro in un vuoto di sistemi valoriali di riferimento che - anche questi, in linea teorica - dovrebbero fare da sfondo sia alla ricerca e selezione manageriale, sia alla valutazione e sviluppo dei responsabili organizzativi.
Oggi esiste una non vasta ma significativa letteratura che illumina sulle psicopatologie manageriali così come sulle nevrosi organizzative. Le due cose sono sostanzialmente speculari nel senso che è quasi inevitabile che un manager malato diffonda intorno a sé - a piene mani - elementi distruttivi per la vita di lavoro di chi gli è a contatto. Sono così state individuate, tra le altre, le tipologie di aziende schizofreniche, paranoidi, isteriche. Ai vertici di queste aziende, nelle posizioni di guida, sono collocati essere umani che traducono inevitabilmente ed inconsapevolmente la loro personale distorsione psichica in stili di leadership. Così, per fare un esempio, un capo insicuro, incerto delle proprie capacità (non tecniche, bensì personali), debole nell'identità personale, può tendere ad enfatizzare la funzione manageriale di verifica e controllo, di pianificazione e monitoraggio: da qui il passo è breve nel causare un appesantimento sull'intera piramide aziendale da lui gestita e, appunto, "controllata", fino a limitare drasticamente l'autonomia dei singoli, il loro spazio di lavoro, la libertà di pensiero.
Naturalmente tra il capo e i singoli soggetti sui quali egli incide vi è la variabile "gruppo" ed anche su tale ambito andrebbe aperta una riflessione approfondita visto che, oggi, ben si conoscono le incredibili insidie che possono percorrere i gruppi di lavoro, apparentemente orientati ad un fine operativo-realizzativo, ma sotterraneamente percorsi da correnti emotive del tutto irrazionali. Ad esempio, quelle che sono definite "angosce persecutorie" ed "angosce depressive", lungi dal rappresentare concetti astratti lontani dalia realtà della vita sociale (anche perché è proprio nella realtà della vita dei gruppi che sono state individuate!) possono rappresentare delle chiavi di lettura preziose per non solo comprendere, ma anche prevenire, fenomeni degenerativi dei team di lavoro. In tale direzione, il fenomeno del mobbing - e, più in generale, tutti i fenomeni di sopraffazione nel mondo del lavoro - insegnano molto soprattutto se visualizzati nelle loro componenti collusive e di alleanze perverse tra soggetti che agiscono la propria aggressività in senso assolutamente demolitore e irriflessivo e la consueta presenza dei cosiddetti "co-mobber".
Credo che una forte responsabilità - in relazione al posizionamento in ruoli di responsabilità di persone psicologicamente insane - stia proprio nelle mani di coloro che si occupano di selection & assessment delle risorse manageriali. Troppa enfasi è data all'analisi dei CV e dei ruoli ricoperti, dei risultati raggiunti e delle qualità professionali, mentre i candidati a tal genere di posizioni organizzative dovrebbero essere valutati soprattutto in base al loro "igiene mentale", all'equilibrio psicologico di ampio spettro, all'etica personale e alla struttura globale dell'identità personale.
E' noto, al contrario, che mentre per selezionare un neolaureato ci si affida (almeno nelle grandi e medie organizzazioni di lavoro) ad un'ampia batteria di prove di valutazione, per scegliere un professional esperto, un capo intermedio, o un manager, la selezione si basa su elementi che nulla hanno a che fare con le qualità personali. Lo stesso operato dei cosiddetti "cacciatori di teste" è quasi sempre limitato a ripercorrere il curriculum del candidato, basandosi poi su riscontri incrociati che provengono da informazioni esterne.
Nulla a che vedere con l'analisi della personalità e la determinazione di un minimo di sanità mentale e comportamentale.
Accade così che le "venti descrizioni empiriche di psicopatologia organizzativa" che ho presentato nel mio Psicopatologia del Management (FrancoAngeli, 2001), così come i profili delle "nevrosi organizzative" delineati da Kets de Vries & Miller nel loro L'organizzazione nevrotica (Raffaello Cortina, 1992) siano oggi ancora assolutamente diffuse e riscontrabili nel mondo del lavoro. Ciò è probabilmente comprensibile da diversi punti di vista, compresa la constatazione del poco che si riesce a fare in termini di salubrità dei luoghi di lavoro nonostante le note e recenti disposizioni in materia - che, come si sa, sono state recepite spesso dal mondo delle imprese in maniera del tutto minimalistica e banalizzata -. D'altro canto in un periodo storico-sociale come questo in cui "il lavoro" rappresenta sempre di più un bene scarso, parallelamente sempre meno attenzione si offre alle "variabili soft" dell'esperienza lavorativa, privilegiando in modo dicotomico il posizionamento sul posto di lavoro. Così molte persone si trovano a difendere il proprio ruolo e a resistere, stingendo i denti, in culture ed atmosfere organizzative degradate per il solo e semplice fatto di non avere altre possibilità di scelta.
Da un vertice di osservazione meno pragmatico, si deve osservare come sia ancora lontana nella mente delle persone al lavoro l'idea che la vita organizzativa sia tutt'altro che una vita razionalmente gestita e strutturata: d'altro canto, se così non fosse non vi sarebbe così tanto spazio per le Malattie del potere (l'autore è Hugh Freeman, Garzanti, 1994), né si potrebbe capire come mai le persone al lavoro non eseguono ciò che di si dice loro di fare, oppongono resistenze e obiezioni rispetto a sollecitazioni - ad esempio, quelle di orientarsi verso una gestione meritocratica (vedi Meritocrazia, di Abravanel (Garzanti, 2008) - che in altri paesi ed in altre realtà di lavoro sono considerate ovvie e scontate!

 

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