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     n. 5 anno 2011

Mettiamo in vetrina il lavoro che non c’è

di Gabriele Gabrielli,  Docente Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

I numeri non cambiano, sono lì a sottolineare la drammaticità della situazione. Li ricordiamo, solo perché non vengano travolti dalla forza della deconcentrazione che impera. A fine dicembre, nell'Unione Europea dei 27, il tasso di disoccupazione ha toccato i 9.6 punti percentuali. Nel nostro Paese siamo all'8.6%, ma non sono computati -com'è noto- quanti sono in cassa integrazione e quanti non cercano una occupazione, perché scoraggiati o disinteressati. E' un numero dunque che, se non si fa nulla, è destinato a crescere di dimensioni con il mero passar del tempo. Il tasso di disoccupazione dei giovani sfiora invece il 30%, quasi un giovane su tre, cioè, non lavora; e qui andiamo proprio peggio che nel resto dell'Unione Europea dove si registrano otto punti percentuali in meno. Un recente lavoro dei ricercatori di Openpolis (www.openpolis.it), nel "pesare" l'attenzione che il Parlamento dedica ai temi del Paese, ci suggerisce indirettamente una ipotesi interpretativa a tutto questo. Le Camere sono praticamente monopolizzate dalla discussione di norme sulla giustizia e sul diritto penale, a cui fanno seguito -ma con un considerevole scarto- i temi legati allo sviluppo economico. Per andare a scovare quanta attenzione viene invece dedicata ai temi della disoccupazione e del lavoro in generale bisogna andare molto più in giù nella griglia dei punteggi e degli indici elaborati dai ricercatori. Si potrà osservare che questa situazione è molto complessa e che le sue dimensioni non possono dipendere soltanto dal disinteresse istituzionale, ci saranno altri fattori in gioco. Sarà anche vero, ma rimane il fatto che di lavoro continua a non parlarsi, essendo altre le priorità di chi ci governa e di quanti legiferano. E' un silenzio assordante che ci disorienta e che lascia attoniti. Perché ormai non vi è una famiglia che non debba fare i conti con le molte questioni che pongono l'assenza del lavoro o la sua fragilità, come la diminuita disponibilità di reddito per le famiglie, la sfiducia che ti prende dentro, l'impossibilità di progettare il futuro o il sentirsi "fuori posto" in una società poco accogliente. C'è il serio rischio, se si continua così, che questo silenzio assuma sempre più i toni di un silenzio anche arrogante e questo potrebbe finire per esacerbare gli animi e incattivirli. In compenso c'è la televisione che si occupa di lavoro. Lo fa con programmi e format "innovativi" -come è quello della trasmissione Il contratto in onda su La 7- che si esprimono con la formula comunicativa, dai contenuti assai incerti, di "social entertainment". Un prodotto misto. "Non è uno show", si precisa, piuttosto si tratta di "un programma di servizio" che vuole formare i giovani a scoprire come si trova lavoro. Ma Aldo Grasso dice "che non è un programma", sembra piuttosto un corso di formazione e anche per questo non potrà funzionare. Certamente si fa fatica a non annoverarlo nel fortunato genere dei reality show. Qual è l'idea? Raccontare come le aziende selezionano le persone. Queste, i candidati, dovranno confrontarsi e superare diverse prove per dimostrare chi ha i requisiti giusti per l'impresa che sta cercando quel profilo professionale. Un racconto che si articola in più fasi, snodandosi sotto l'occhio delle telecamere che riprendono tutto, le prove da sostenere, i colloqui, le ansie dei protagonisti, le loro ambizioni e progetti. Alla fine l'impresa sceglierà il candidato ritenuto migliore e gli offrirà il contratto; non un contratto qualunque, ma un "contratto a tempo indeterminato". Una conquista e un premio importanti, soprattutto di questi tempi, che va adeguatamente celebrata con altri ospiti e applausi. Il format prevede anche questo; la firma del contratto è messa in vetrina dalle telecamere, insieme ai consigli, una sorta di numerose pillole di saggezza a buon mercato, che vengono snocciolati come momenti di verità durante tutto il programma e che diventeranno le "buone pratiche" da seguire per chi vorrà cimentarsi nell'agone del mercato del lavoro con qualche probabilità di successo. Si salverà il programma? E' la domanda che alcuni addetti ai lavori si fanno. E' una questione che non ci appassiona molto. Piuttosto conviene riflettere su altro, come per esempio sul messaggio "che passa". Questo programma è l'ultimo prodotto televisivo della serie "vetrinizzazione sociale", un processo che -come l'ha chiamato da tempo Vanni Codeluppi- vuole spettacolarizzare ogni cosa. Nell'economia "del c'ero anch'io" non si salva nulla dalla commercializzazione: sentimenti, ansie, tragedie, dolore e sofferenza. Tutto può avere un valore nello show business. Persino la morte. Per citare solo alcuni esempi, si pensi ai funerali di Michael Jackson che diventano l'ultima "apparizione" in pubblico dell'artista; o ancora alla "spettacolarizzazione finanziaria" della malattia di Steve Jobs. Gli effetti della strategia della vetrinizzazione sociale sono stati oggetto di numerosi e approfonditi studi e a quelli rinviamo. Qui ci preme proporre soltanto due riflessioni. La prima è questa. La comunicazione che supporta questo processo finisce per farci sentire tutti spettatori, invitandoci a guardare con distacco ciò che accade, perché in fondo tutto quello che è spettacolo accade ad altri. Che responsabilità abbiano noi? L'azione dello spettacolarizzare può sortire l'effetto di annacquare ciò che ci circonda, addormentando capacità e iniziativa. Confonde contesti, realtà e immaginazione. E veniamo alla seconda riflessione. Mostrare ogni cosa all'occhio intrusivo delle telecamere affinché lo trasformi in show sottoponendolo alle regole degli indici di ascolto, significa anche assecondare una visione che collega sostanzialmente il successo al potere magico del palcoscenico. Una filosofia che legittima socialmente, incentivandoli, comportamenti intesi a ricercare la costruzione di sé come personaggio, più che a lavorare con impegno per costruire competenze. La spettacolarizzazione porta con sé il rischio di prospettare carriere slegate dai tempi, offrendosi come scorciatoia per quanti, nuovi talenti, concorrono alla produzione della messa in scena, riducendo a mercanzia bisogni, progetti, paure e fragilità. Non sappiamo se e come si possano salvare programmi come questi che sono espressione dello smarrimento contemporaneo. Né per questo vanno demonizzati i suoi protagonisti. Ci piacerebbe solo che diventassero una buona occasione per riflettere e accrescere la consapevolezza che c'è un posto per ogni cosa, una gerarchia di beni che non può essere distrutta. E ci piacerebbe che si salvasse il lavoro e la sua dignità, facendo resistenza e allontanando la prospettiva che guarda a questi, con coscienza o non poco importa, come a oggetti da mercificare e inscrivere preminentemente nel campo delle relazioni di mercato. Il lavoro e la sua profonda umanità sono beni e dimensioni troppo importanti per sacrificarli sull'altare dello spettacolo.

www.gabrielegabrielli.com

 

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