hronline
     n. 11 anno 2023

Settimana corta e “patto di rendimento”: un binomio vincente per aziende e lavoratori(1)

di Luca Failla

di Luca Failla

Da qualche tempo si fa un gran discutere del tema “caldo” del momento: la settimana corta nelle aziende a parità di salario, forse il frutto più tangibile ed immediato della passata pandemia e della “rivoluzione” dei valori che ha provocato anche  (e soprattutto) nel mondo del lavoro e nell’approccio conseguente.

In alcune aziende italiane lo si sta già sperimentando, vedi il caso di Intesa che ha lanciato una iniziativa in tal senso con la settimana corta di 9 ore giornaliere per 4 giorni ed un giorno libero, iniziativa avviata, alla fine,  in via unilaterale dall’azienda poiché non sottoscritta dalle organizzazioni sindacali (il che la dice lunga sulla difficoltà ad incontrarsi con le parti sociali su questo terreno).

Sebbene di sicuro interesse per i lavoratori (si veda la recente inchiesta coordinata da 4Days week Global in collaborazione con alcune università inglesi su un campione di 2900 dipendenti e 61 aziende https://www.4dayweek.com/) il tema appare ancora un po’ ostico per molte aziende e Ceo italiani, restii a “concedere” ai propri dipendenti di lavorare meno giorni a retribuzioni invariate.

In Belgio ad esempio per ovviare a tale ostacolo, una legge dell’anno scorso ha consentito la short week a condizione, tuttavia,  di “innalzare” i giorni di lavoro effettivo cosi da “recuperare” di fatto le ore non lavorate nel giorno non lavorato (condizione che, personalmente, non trovo molto ragionevole in termini di work life balance che qui di riduzione effettiva c’è davvero poco, semmai una mera ridistribuzione dell’orario settimanale).

E’ mia opinione che in  Italia la settimana corta (a parità di salario beninteso) sarà possibile con successo come nuovo modello organizzativo (principalmente, ma non solo, nell’area del terziario avanzato) solo a condizione di stabilire chiaramente un paletto indispensabile per la riuscita dell’esperimento: quello cioè di fissare chiaramente – in via pattizia collettiva o individuale (che personalmente preferisco almeno in questa fase ancora iniziale) -   il “rendimento atteso” dall’azienda nei giorni di lavoro effettivo e cioè la cd. produttività, elemento che nelle iniziative avviate sino ad oggi dalle aziende italiane appare del tutto ignorato, limitandosi normalmente a rimodulare quantitativamente l’orario di lavoro settimanale (ovvero introducendo uno o più giorni di remote working settimanale), ad invarianza oraria complessiva senza alcun cenno al rendimento.

Per esperienza ormai maturata sul campo sono abbastanza convinto che nessun Ceo (o Cfo)  accetterà facilmente il rischio di pagare lo stesso salario a dipendenti che lavoreranno meno ore di  prima,  a meno di non avere  la ragionevole certezza circa il “rendimento atteso” nell’orario di lavoro settimanale ridotto.

A mio avviso la riduzione dell’orario di lavoro a parità di denaro sarà possibile come scelta organizzativa stabile ed efficace solo se il cd. “rendimento atteso” dall’azienda nei giorni  di prestazione ridotta sarà almeno pari o addirittura  superiore a quello precedente con orario esteso, con buona pace delle richieste avanzate oggi anche dal sindacato (per motivi più di rivendicazione politico salariale  in cerca di proselitismo nei nuovi spazi del  mondo impiegatizio dopo la crisi della vocazione operaia) e degli sforzi degli HR lungimiranti e di buona volontà.

Lo schema classico del contratto di lavoro: denaro contro ore di lavoro

Va ricordato infatti che nell’attuale sistema contrattuale di lavoro (art. 2094 c.c.) il rendimento del lavoratore è un parametro che ahimè non ha mai avuto piena cittadinanza nel nostro ordinamento, proprio perché la causa del contratto di lavoro (e cioè la ragione giustificatrice del contratto per usare dei termini civilistici) viene fatta risalire allo scambio puramente “mercantile” tra tempo di lavoro (messa a disposizione delle energie psicofisiche del lavoratore) e retribuzione mensile corrisposta.

In buona sostanza secondo lo schema “classico” consolidato, con il contratto di lavoro una azienda non “acquista” mai un risultato atteso dalla attività del proprio dipendente (che rimane così una variabile indipendente…) ma solo ed unicamente una certa quantità oraria mensile di disponibilità di tempo di lavoro del proprio collaboratore (distribuita su una turnazione settimanale, giornaliera etc.), senza alcuna garanzia circa il risultato finale di quella prestazione che in realtà – come sappiamo perfettamente - dipenderà da una serie di fattori molto spesso variabili seppure connessi fra di loro:  le direttive impartite ed il controllo sulla attività prestata a cui aggiungere sempre l’intensità, l’approccioe l’impegno personale del collaboratore e cosi via,  come dimostra la pluriennale discussione giurisprudenziale sul concetto di scarso rendimento e licenziamento.

Al contrario con la settimana corta il rendimento atteso dalle aziende potrebbe assurgere ad elemento principe del nuovo modello organizzativo, assumendo una dignità contrattuale fino ad oggi mai neppure ipotizzata (salvo introdurlo pattiziamente all’interno del rapporto di lavoro, riscrivendo   - come sostengo ormai da tempo - le lettere di assunzione, quelle di assegnazione a nuove mansioni e ruoli e quelle di riconoscimento di gratifiche, aumenti e superminimi, con cui “fissare” il rendimento atteso della prestazione, ma sarebbe un  discorso che ci porta lontano da queste brevi note).

Il patto di rendimento

Ma come fare ? Occorre una nuova legge ad hoc mi sento chiedere ? 

Proprio per nulla. Abbiamo già tutto quello che ci occorre, basta solamente  metterlo in pratica.

Gli strumenti ci sono già e, come sottolineo da tempo, , si tratta solo di sperimentare in concreto nuovi modelli di organizzazione del lavoro, modificando e correggendo  via via  sul campo gli schemi di gioco, sempre reversibili in funzione dei risultati ottenuti.

Le prime aziende che si muoveranno in questa direzione indicheranno la linea alle altre e trasformeranno questo nuovo strumento in una leva competitiva  sia in termini di produttività che di retentione attrattività per le professionalità più interessanti del mercato. Non  si dimentichi il fenomeno delle grandi dimissioni che non accenna a diminuire soprattutto nelle giovani generazioni e che oggi sempre di più chiedono condizioni di lavoro (da casa o da remoto, senza osservanza dell’orario di lavoro bensì sempre più a risultato)  che consentano il bilanciamento ed il rispetto dei propri interessi e della vita privata (ed in questo  la settimana corta potrebbe davvero diventare una leva di grande opportunità e gradimento per tali segmenti professionali).

Come per il remote working (che molte aziende avevano introdotto in via sperimentale ben prima della legge n. 81/2017 che, seppure in ritardo, lo normalizzava…) anche per la settimana corta basterà predisporre una regolamentazione individuale ad hoc con i lavoratori interessati (o collettiva con le parti sociali laddove ve ne siano le condizioni) ove da un lato prevedere a) la rimodulazione/riduzione dell’orario settimanale su 4 giorni a parità di salario e dall’altro, in cambio, b) fissare obiettivi di rendimento congiuntamente “attesi” e misurabili delle prestazioni di volta in volta variabili in funzione delle attività concretamente prestate nelle giornate residue – il cd. Patto di rendimento - il cui mancato raggiungimento (misurabile su base giornaliera, settimanale, mensile o multi periodale etc.) farà decadere il lavoratore interessata/o dal beneficio della settimana corta, riportandolo cosi alla distribuzione oraria precedente.

In  tale pattuizione si potranno certamente predeterminare anche rimedi volti a supportare il lavoratore al raggiungimento dei risultati attesi qualora ciò non si sia verificato (eventualmente analizzando insieme le ragioni impeditive e ostative, rimuovendole ove possibile etc.) cosi da favorire in un’ottica collaborativa (e non oppositiva!) il raggiungimento del risultato atteso ed  il mantenimento del beneficio della settimana corta.

In tal modo il “rendimento atteso” dalla prestazione lavorativa – oggi totalmente assente  dallo schema contrattuale del lavoro subordinato - entrerà effettivamente a far parte del contratto di lavoro, responsabilizzando in prima persona lo stesso lavoratore – ed è questa a mio avviso la novità più dirompente dello schema qui proposto – interessato a raggiungere l’obiettivo pattuito pena la perdita del beneficio di flessibilità concesso.

In altri termini, con il patto di rendimento il lavoratore diventerà egli stesso responsabile in prima persona del raggiungimento del “risultato atteso” nelle giornate di lavoro lavorate, garanzia questa per il mantenimento dei benefici della settimana corta (a parità di salario) e della liberazione dalle rigide catene spazio-temporali del lavoro subordinato classico vincolato alla rigida osservanza dell’orario di lavoro settimanale.

Di converso, le aziende ed i managers saranno a propria volta sempre meno focalizzati sul rigido controllo dello spazio-temporale della prestazione lavorativa “in svolgimento” (ti osservo e ti controllo mentre stai lavorando all’interno del tuo orario di lavoro), concentrandosi semmai sul controllo “a posteriori” del risultato e del rendimento prodotto, e cioè  a valle della prestazione del dipendente.

In caso di esito positivo, sempre in via sperimentale il passo successivo potrebbe poi essere addirittura la modulazione/riduzione dell’orario di lavoro anche nelle giornate di lavoro residue, la cd. giornata corta: che cosa impedirebbe infatti al dipendente di uscire prima dal lavoro dedicandosi ai propri interessi ed attività personali una volta completato il lavoro previsto per quella giornata ? E cioè una volta raggiunto il rendimento atteso e pattuito con l’azienda all’interno di quella fascia temporale ?

Nulla a mio avviso.

A patto di abituarsi a misurare il rendimento dei nostri collaboratori in modo concreto anziché pretenderne la presenza in ufficio quale simulacro esteriore di una presunta produttività ed efficienza  (il più delle volte smentita).

Come si vede, tale nuovo schema di gioco finirebbe col bilanciare in modo efficace, da un lato, le esigenze di rendimento/produttività attese delle aziende e dall’altro, le crescenti esigenze  personali dei dipendenti in un efficace formula win-win al passo coi tempi nuovi che stiamo vivendo dopo la pandemia e dei cambiamenti  prodotti soprattutto all’interno delle organizzazioni aziendali.

Ma come misurare il rendimento atteso ?

Ultimo tema in ordine di analisi è il famigerato risultato.

Mi si chiede: ma come misurare il rendimento atteso della prestazione del mio collaboratore ?

Che molti managers sembrano improvvisamente arretrarsi timorosi di fronte a tale immane compito.

Mi chiedo invece  come sia possibile, oggi,  non riuscire a  fissare in anticipo la soglia di rendimento atteso della attività dei propri collaboratori e poi di verificarla concretamente con l’ausilio, laddove occorra,  anche delle nuove tecnologie che paiono inarrestabili.

Senza scomodare Taylor o Henry Ford, sono tuttavia convinto che ogni attività umana (anche quella del terziario avanzato e dei servizi) sia in qualche modo scomponibile in segmenti e fasi di attività a cui assegnare dei risultati e rendimenti attesi misurabili in un certo intervallo temporale (giorno, settimana o mese etc.), dipendendo ovviamente, e modulando così, ogni  analisi dalla specifica attività lavorativa in questione.

Ed è questo uno sforzo necessario da affrontare se vogliamo cogliere la sfida della produttività e del rendimento di cui spesso lamentiamo la mancanza o i bassi livelli soprattutto in Italia. 

Credo che questo possa diventare sempre più un terreno interessante di confronto e sfida tra HR e ingegneri gestionali che da tempo si occupano di tali tematiche studiando le  aziende ed i  cicli produttivi.

In questo, le nuove tecnologie (ed il famigerato algoritmo…) potranno certamente essere di ausilio a patto di non essere spaventati dalle potenziali implicazioni (non tutte positive beninteso ma come sempre basta applicarle con intelligenza e buon senso) o contrari a priori.

Alle aziende ed in particolare alle Risorse Umane, oggi più che mai,  spetterà la delicata responsabilità di fissare “regole del gioco” e di sperimentare cosi nuovi modelli organizzativi vincenti ed equilibrati anche nell’interesse dei lavoratori.

Una grande occasione da non perdere. Anche perché su questo terreno non credo ne avremo delle altre. 

Del resto come recita l’adagio “Ogni lungo viaggio inizia con un primo passo”.

 

avv. Luca Failla
Founding partner Failla&Partners Studio Legale

 [1] Per comodità di lettura si è utilizzato nel testo  il termine generico di lavoratore o lavoratori intendendo ovviamente sia lavoratrice/lavoratore che  lavoratrici/lavoratori.

 

  • © 2024 AIDP Via E.Cornalia 26 - 20124 Milano - CF 08230550157 - tel.02/6709558 02/67071293

    Web & Com ®