hronline
     n. 11 anno 2023

Consigli a un giovane analfabeta che vuole darsi alla letteratura attratto dal numero dei premi letterari

di Paolo Iacci

di Paolo Iacci

Chi apre il periodo, lo chiuda.

È pericoloso sporgersi dal capitolo.

Cedete il condizionale alle persone anziane, alle donne e agli invalidi.

Lasciate l’avverbio dove vorreste trovarlo.

Chi tocca l’apostrofo muore.

Abolito l’articolo, non si accettano reclami.

La persona educata non sputa sul componimento.

Non usare l’esclamativo dopo le 22.

Non si risponde degli aggettivi incustoditi.

Per gli anacoluti, servirsi del cestino.

Tenere i soggetti al guinzaglio.

Non calpestare le metafore.

I punti di sospensione si pagano a parte.

Non usare le sdrucciole se la strada è bagnata.

Per le rime rivolgersi al portiere.

L’uso del dialetto è vietato ai minori di 16 anni.

È vietato servirsi del sonetto durante le fermate.

È vietato aprire le parentesi durante la corsa.

Nulla è dovuto al poeta per il recapito.

Questa è una piccola chicca di Ennio Flaiano, contenuta in un libro delizioso, L’uovo di Marx, per i tipi di Scheiwiller. È un pezzo giocoso che mi ricorda sempre l’importanza di scrivere in un italiano almeno accettabile, anche quando si tratta di un pezzo tecnico.

Nella nostra lingua, una persona con un livello medio-alto di istruzione utilizza all’incirca 47.000 vocaboli. La grande maggioranza di queste parole, pur essendo molto importanti per rendere il discorso più preciso e il pensiero più ricco, non vengono usate spesso. Le parole che usiamo in genere sono molte di meno, circa 6.500. Con queste riusciamo a esprimere il 98% dei nostri discorsi. Di questi 6.500 termini, solo 2.000 sono davvero fondamentali. Con queste duemila parole si riesce a condurre il 90% dei normali discorsi di ogni giorno. 

Nel mondo del lavoro tendiamo ad utilizzare sempre gli stessi 2.000 termini, a cui aggiungiamo molte parole di origine americana di cui non sempre conosciamo tutte le sfumature. Questo breve editoriale è per ricordare come il pensiero sia modellato dal linguaggio. Il linguaggio è in relazione dinamica con il pensiero, essendo capace di trasformarlo e influenzarlo: linguaggio e pensiero si integrano nel corso dello sviluppo dell’individuo, divenendo strutturalmente interdipendenti. È innegabile che il linguaggio umano sia strettamente connesso con il nostro sistema cognitivo: il linguaggio ci aiuta a ragionare, a mettere in ordine i pensieri, a categorizzare la realtà, a fare delle astrazioni. Tuttavia, il linguaggio serve anche per comunicare. Il modo in cui sono fatte le lingue verosimilmente riflette anche questa sua funzione. Senza linguaggio le nostre relazioni sarebbero molto più povere. E, senza le relazioni con gli altri, noi stessi non saremmo quelli che siamo. Quando ogni mattina ci sediamo al nostro posto di lavoro, tendiamo a usare il linguaggio dei numeri, il primo alfabeto di chi lavora in azienda. Dovremmo però anche pensare che le aziende sono prima di tutto delle comunità vive, in interazione costante con il contesto sociale ed economico in cui sono incastonate. Per capire la vita della comunità, il linguaggio dei numeri non è sufficiente. E non lo sono neanche quelle duemila parole che normalmente utilizziamo. Men che meno gli ulteriori anglicismi che vi immettiamo. Per non perdere l’abitudine all’uso dei 47.000 vocaboli cui facevo cenno poc’anzi, non smettiamo di leggere il giornale e di approfondire ciò che ci interessa sui libri. Non smettiamo di vivere una vita ricca.

 

Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano

 

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