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     n. 15 anno 2022

Pari opportunità sul lavoro: un tema soltanto privato?

di Giulietta Bergamaschi e Chiara D’Angelo

di Giulietta Bergamaschi e Chiara D’Angelo

Rapporto biennale, Certificazione di parità e vantaggi connessi sono le principali voci che da qualche mese, specie sulla scorta del PNRR, risuonano con insistenza sotto la rubrica “pari opportunità” nelle agende degli “addetti ai lavori del diritto del lavoro”: manager, direttori del personale, legali, consulenti e anche lo stesso Legislatore (L. 162/2021).

Dal punto di vista delle istituzioni, le novità appena citate sembrano indicare uno specifico trend normativo volto a rendere l’equità di genere certificata come una “marcia in più” per le aziende che scelgano di darvi attuazione, non invece come un mero “sacrificio” alle stesse imposto.

Ciò in quanto, come ormai risaputo, le aziende con il “bollino rosa”, che si siano dimostrate proattive nel capo delle pari opportunità, vanno incontro a specifici benefici non solo reputazionali, ma anche economici (ad esempio, esoneri contributivi, vantaggi per concessioni di aiuti di Stato e aggiudicazioni di contratti pubblici).

Quanto precede dimostra che, secondo la logica tenuta dalle istituzioni, il riconoscimento della Certificazione è regolato da un meccanismo premiale e non obbligatorio, dipendendo da incombenti che, seppur vantaggiosi, restano di fatto rimessi alle libere valutazioni e scelte delle aziende più virtuose e perciò meritevoli. 

Il risultato è che, nel quadro attuale, la “partita” delle pari opportunità sul lavoro viene “disputata” essenzialmente sul campo dell’autonomia privata, da parte delle imprese che decidano di certificarsi.

Ebbene, proprio a fronte di ciò, sembra fondata l’impressione che la recente impostazione politica/normativa sia largamente sbilanciata nel senso di fare del privato il principale (o esclusivo? Lo vedremo tra poco) attore nel campo della D&I. 

Sorgono, quindi, spontanee alcune domande, del tipo: “quale posizione occupano in concreto le istituzioni nel percorso verso la parità di genere in azienda?”, “sarebbe auspicabile che il cambiamento culturale che si vuole realizzare nel mondo del lavoro riceva un maggiore esempio da parte del decisore politico?”.

Questi e altri simili interrogativi sono, peraltro, proprio al corrente ordine del giorno, se solo consideriamo che a fine luglio scorso, il Senato, nel corso dell’iter di riforma del proprio Regolamento a seguito della revisione costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari, ha respinto un emendamento in favore della parità di genere nel linguaggio istituzionale.

In particolare, la proposta di modifica, diretta all’introduzione di nuove “Disposizioni per l’utilizzo di un linguaggio inclusivo”, militava per “l’adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne”.

E così, naufragando questo emendamento, viene negata la possibilità che nelle comunicazioni ufficiali dell’amministrazione trovino spazio declinazioni femminili quali “ministra”, “deputata”, “senatrice”.

Si tratta di una vicenda che fa emergere spontanee alcune osservazioni, posto che la mancata approvazione della citata proposta di revisione linguistica si presta ad almeno due letture

Può essere intesa, anzitutto, come il segnale di una più che frequente “resistenza al cambiamento”, che richiede ulteriore tempo “fisiologico” per approdare a buon fine (come, a onor del vero, potrebbe dimostrare il discreto successo comunque incontrato dall’emendamento suggerito: 152 voti favorevoli – oltre 60 contrari e 16 astenuti – a fronte dei 161 richiesti per l’approvazione a maggioranza assoluta).

In alternativa, potrebbe parimenti condividersi l’idea che le istituzioni, anche in tale occasione, abbiano dato un segnale di mancata partecipazione a un cambiamento culturale demandato – anche attraverso la legislazione di settore - quindi alle aziende quali protagoniste quasi esclusive.

In effetti, tale seconda ipotesi potrebbe incontrare un certo sostegno, pensando al solo fatto che “attraverso il linguaggio non ci limitiamo a descrivere l’esistente ma contribuiamo, talvolta, alla costruzione e al rafforzamento di vecchi e nuovi stereotipi culturali. La lingua rispecchia la cultura della nostra società” (cfr. “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, pag. VII).

Fermo quanto sopra, a prescindere dalla posizione che si scelga di assumere a fronte di tali digressioni – comunque tutt’altro che superflue – difficilmente potrà dissentirsi sul fatto che, nel quadro attuale, le imprese siano le principali promotrici delle pari opportunità e del contrasto alle discriminazioni nel mondo del lavoro. 

Un ruolo, questo, che rende senz’altro decisiva l’osservanza – già di per sé onerosa – di tutti gli incombenti connessi, anzitutto, al Rapporto biennale e alla Certificazione di parità: oneri che oggi riempiono di nuovi contenuti la responsabilità sociale di impresa, adesso chiaramente comprensiva anche delle doverose azioni degli operatori economici nella promozione dell’equità di genere.

 

avv. Giulietta Bergamaschi, managing partner Studio Legale Lexellent 

avv. Chiara D'Angelo, associate Studio Legale Lexellent 

 

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