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     n. 15 anno 2022

Diversity, Equity & Inclusion: perché certificare l’inclusione e la parità di genere nelle aziende?

di Maria Cristina Bombelli ed Emanuele Serrelli

Rispetto al passato l’attenzione ai temi DEI (Diversity, Equity & Inclusion) e ai progetti in questa direzione è aumentata considerevolmente.

Intorno agli anni 2000, la DEI era guardata sia dai ricercatori che dai manager come un elemento tutto sommato marginale: i contenuti prioritari a quei tempi erano, ad esempio, il change management e tutti i temi afferenti al clima organizzativo. Poi, col passare degli anni, la considerazione è aumentata a tal punto da teorizzare, a ragione, che l’ottica impiegata per affrontare i temi DEI possa contenere al suo interno molti altri aspetti trasversali. 

Lo stesso clima organizzativo, infatti, può essere avvelenato dalle tendenze della cultura aziendale ad escludere alcuni segmenti di persone per qualcosa che non riguarda la prestazione, ma a causa di stereotipi diffusi e inconsapevoli. Analogamente, se pensiamo a tutti i processi HR dal recruitment alla retribuzione, la DEI può fornire un solido approccio per rilevare eventuali momenti di non obiettività.

Insomma, con il passare degli anni i temi dell’inclusione sono diventati decisamente più considerati e diffusi, e oggi moltissime realtà si rivolgono ad essi per comprendere con lenti nuove i processi e le persone.

L’attenzione generale a questi fenomeni è aumentata, ma si corre il rischio di fermarsi all’apparenza, alla moda, al washing. Le emozioni suscitate dall’incontro con le storie individuali di esclusione, pur essendo paradigmatiche, spesso si fermano ad un coinvolgimento organizzativo superficiale.

Una svolta necessaria che è sintetizzabile in due aggettivi: profondità e continuità. Profondità, perché è necessario essere consapevoli che non è possibile includere davvero le persone se non si comprendono in modo approfondito i meccanismi di esclusione e le dinamiche (anche teoriche) afferenti a cosa accade quotidianamente; continuità, perché la consapevolezza deve sviluppare strategie di lungo periodo e azioni concrete che perdurano nel tempo.

A completare questo quadro si aggiungono oggi altri strumenti, come il codice delle pari opportunità, la norma ISO 30415 e la prassi di riferimento UNI 125:2022, che prevede specifici obiettivi di equity tra donne e uomini.
 
Questa prassi, che può portare al raggiungimento della cosiddetta certificazione della parità di genere, è applicabile a qualsiasi tipo di organizzazione (del settore privato, pubblico o senza scopo di lucro) indipendentemente dalle dimensioni e dalla natura dell’attività. L’azienda, dopo aver eventualmente colmato alcune criticità nell’area gender equity, si sottopone all’audit. Questa fase prevede il coinvolgimento di una terza parte indipendente, chiamata a certificare la conformità del sistema di gestione rispetto ai requisiti, nonché il raggiungimento di una soglia minima di punteggio rispetto agli obiettivi. 

Ma è davvero possibile e opportuno quantificare e certificare l’inclusività che, come spesso si sottolinea, da una parte rischia una riduzione a meri numeri non rispecchianti le reali condizioni di vita nell’organizzazione, e dall’altra comprende aspetti evanescenti e sfuggenti come quelli culturali e psicologici?

Chiediamo a Claudia Strasserra, Chief Reputation Officer di Bureau Veritas Italia, che da anni si  occupa di certificazioni, se ci può aiutare a capire questo mondo e, soprattutto, quali possono essere i vantaggi di un approccio che a volte viene visto come più burocratico che concreto.

Partirei da questa considerazione, un vero e proprio “mantra” per noi che ci occupiamo di sistemi di gestione: “Non si può migliorare ciò che non si riesce a misurare”.
Assodato e condiviso che l’obiettivo è migliorare, dobbiamo cercare di misurare il fenomeno, andando ad identificare quei KPI che davvero esprimono grandezze significative.
Perciò ha senso misurare quegli “indicatori sentinella” che possono esprimere squilibri e disparità. Solo per fare qualche esempio, la percentuale di differenza retributiva per medesimo livello di inquadramento per genere; oppure la percentuale di donne presenti nell'organizzazione con delega su un budget di spesa/investimento; o ancora la percentuale di donne presenti nella prima linea di riporto al vertice.
Nell’implementare un sistema di gestione per la parità di genere, non parlerei tanto di burocrazia quanto di “metodo”: un metodo per analizzare il contesto, misurare il fenomeno, identificare aree di debolezza e obiettivi di miglioramento, da conseguire mettendo in atto una serie di azioni sottoposte a monitoraggio continuo nel tempo.
 
È importante quindi,  per dare profondità e continuità all’azione, e passare da una dimensione qualitativa, di impressione, ad una quantitativa che consenta di rilevare, ma soprattutto di comparare, i fenomeni. È questo è quanto si prefigge ogni tipo di certificazione.
Claudia Strasserra aggiunge: un altro tema importante è quello delle procedure, che sono qualcosa di ben diverso dalla “burocrazia”. La procedura è la formalizzazione di un processo che funziona così bene che vogliamo “metterlo nero su bianco”, perché chiunque entri in azienda lo apprenda e lo possa seguire. La procedura aiuta a non disperdere le best practice e il know how, consente di uscire dalla soggettività e dalla discrezionalità, che insieme rappresentano una potenziale minaccia alla parità di trattamento.

Possiamo aggiungere uno sguardo ai vantaggi che la certificazione offre alle aziende. In primo luogo, riduce le discriminazioni e promuove un cambiamento culturale che ha impatti tangibili sia sul business che sull’innovazione.

Essere un’azienda certificata infatti valorizza i talenti femminili e sostiene il raggiungimento del Goal 5 “Gender Equity”, uno dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile fissati dall’ONU.

Un altro vantaggio è dato dal fatto che la certificazione dà diritto, all’azienda che la ottiene, a sgravi fiscali e premialità nella partecipazione a bandi di gara italiani ed europei. Oltretutto, posizionarsi come azienda certificata migliora la reputazione, il punteggio negli indici ESG e consente un miglior posizionamento aziendale in termini di attrazione dei giovani, essendo un tema il tema dell’inclusione della diversità sicuramente molto sentito dalle generazioni Y e Z.

Due osservazioni conclusive: la prima, moltissime realtà aziendali hanno dato vita a diversi progetti per l’inclusione, soprattutto quella femminile. La prassi di riferimento consente di “sistematizzare” in modo coerente queste azioni e gli obiettivi raggiunti, sviluppando una strategia, come già sottolineato precedentemente, duratura nel tempo e quindi molto più efficace. 

La seconda riguarda tutti i tipi di certificazione che, se affrontati esclusivamente con uno spirito burocratico, possono diventare degli adempimenti fine a sé stessi. La prassi di riferimento UNI 125:2022 in realtà è molto snella e conseguentemente di facile applicazione. In ogni caso sta sempre al management saper utilizzare in modo intelligente le proposte dei legislatori, inserendole in strategie più ampie. 

Come spesso viene rilevato il tema della parità di genere può diventare una moda esibita più per convenienza che per convinzione. Lo strumento della certificazione aiuta a passare dagli interventi spot, di washing a cambiamenti organizzativi più trasversali, efficaci e duraturi.

 

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