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     n. 14 anno 2021

Gli oscillanti approdi della Cassazione sul computo dei recessi per i licenziamenti collettivi

di Giuseppe Bulgarini d'Elci

di Giuseppe Bulgarini d'Elci

 

Si riapre con gradualità la stagione dei licenziamenti legati ai piani di ristrutturazione aziendale, che sono sospinti dagli sconvolgimenti che l'emergenza pandemica ha prodotto per il sistema economico e nel tessuto produttivo del Paese.
Il superamento del blocco dei licenziamenti economici, iniziato il 1° luglio per le (sole) imprese che hanno accesso alla CIGO (con le eccezioni dei settori in crisi ex art. 4 D.L. 99/2021), porta con sé la necessità di avere ben chiari i confini tra i due ambiti dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggetto e dei licenziamenti collettivi. Sono contesti totalmente differenti, che implicano nel secondo caso lo svolgimento di procedure di informazione e consultazione sindacale sconosciute nel primo caso.
I licenziamenti individuali per motivo oggettivo, sul piano formale, richiedono di prestare attenzione essenzialmente alla data "spartiacque" di assunzione dei lavoratori. Nei confronti dei nuovi assunti (ovvero dal 07/03/2015) il datore deve concentrarsi sulla comunicazione scritta di licenziamento, assicurandosi che le ragioni aziendali che sorreggono la decisione di interrompere il rapporto di lavoro siano correttamente rappresentate. Per i vecchi assunti, invece, l'intimazione del licenziamento è preceduta da un esame congiunto con tentativo di conciliazione presso l'ITL competente, a valle del quale il datore può comunicare al lavoratore il licenziamento (art. 7 L. 604/1966).
Ben più complessa è la gestione dei licenziamenti collettivi, posto che le imprese sono tenute ad attivare una articolata procedura, che consta di una prima fase sindacale alla quale fa seguito, in mancanza di accordo, una seconda fase amministrativa (artt. 4 e 24 L. 223/1991).
Ma quando si deve attivare la procedura collettiva in presenza di esuberi?
È un tema centrale con cui le imprese che escono dal blocco dei licenziamenti economici devono confrontarsi, reso oggi più ostico dalle interpretazioni divergenti maturate in seno alla Cassazione negli ultimi mesi.
La norma di legge stabilisce, in sintesi, che la procedura di informazione e consultazione sindacale (ex artt. 4 e 5 L. 223/1991) si applichi alle imprese con più di 15 dipendenti che "intendono effettuare almeno 5 licenziamenti" nell'arco di 120 giorni (art. 24).
Un indirizzo consolidato della giurisprudenza affermava che nel numero dei licenziamenti, ai fini della procedura collettiva, dovessero essere inclusi solo quelli qualificabili come recessi datoriali in senso stretto. Per molti anni la Cassazione si è attestata sulla tesi per cui il riferimento al termine "licenziamento" contenuto nell'art. 24 della L. 223/1991 andasse inteso in senso rigorosamente tecnico, senza poterlo estendere ad altre fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro riconducibili, in tutto o in parte, ad una scelta del lavoratore. Si riteneva, pertanto, che dimissioni, risoluzioni consensuali o prepensionamenti non potessero mai essere calcolati per determinare la soglia dei licenziamenti superata la quale scatta la procedura collettiva, neppure se tali recessi rientravano nel contesto di una medesima operazione di esubero di personale.
Nell'estate 2020 la Cassazione (ord. 20/07/2020 n. 15401) aveva ribaltato questo indirizzo, affermando che la nozione di licenziamento utile ai fini della procedura collettiva di riduzione del personale ricomprendesse, oltre al licenziamento propriamente inteso, altre ipotesi nelle quali la risoluzione del rapporto, anche se riconducibile ad una iniziativa del lavoratore, è stata indotta da un cambiamento delle dinamiche che governano il rapporto di lavoro.
Alla luce di questo orientamento, non è (più) dirimente che la cessazione del contratto di lavoro derivi da un licenziamento, in quanto le tutele di cui alla L. 223/1991 si applicano anche alle risoluzioni che sono frutto di una scelta del lavoratore, se all'origine di questa opzione si colloca una modifica sostanziale delle condizioni di lavoro.
Sulla scorta di questi principi, la Cassazione ha concluso che nel conteggio del numero minimo dei 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, in presenza dei quali si attiva la procedura collettiva ex artt. 4 e 24 L. 223/1991, rientri la risoluzione consensuale definita dalle parti a seguito del trasferimento di sede non accettato dal lavoratore.
Negli operatori più attenti la decisione aveva suscitato allarme, considerando che in pendenza di pandemia, proprio a fronte del divieto dei licenziamenti per motivo oggettivo, le imprese avevano utilizzato strumenti alternativi di recesso, quali le risoluzioni consensuali intervenute nell'ambito di accordi aziendali di incentivo all'esodo. Né sono pochi, tutt'altro, i lavoratori che in questo anno e mezzo di emergenza sanitaria hanno risolto il contratto di lavoro a fronte di cambiamenti organizzativi (pensiamo, ad es., alla riduzione dell'attività lavorativa con ricorso agli ammortizzatori sociali o ai trasferimenti presso sedi geograficamente distanti dal domicilio) incidenti in modo significativo sulle condizioni del rapporto. È stato inevitabile domandarsi se questi recessi, collocandosi a ridosso della fine del divieto, dovranno essere conteggiati nel numero degli esuberi che le imprese hanno iniziato a programmare.
Nel frattempo, la Cassazione ha nuovamente cambiato indirizzo (sent. 31/05/2021 n. 15118), riaffermando il vecchio principio per cui nella nozione di licenziamento previsto dalla L. 223/1991 non possono includersi ipotesi differenti (dal licenziamento tecnicamente inteso) di risoluzione del rapporto di lavoro, ancorché riferibili ad una modifica datoriale delle condizioni di lavoro. In questa pronuncia la Suprema Corte si spinge ad affermare che nel novero dei licenziamenti non siano da ricomprendere neppure le comunicazioni ex art. 7 L. 604/1966, con le quali il datore di lavoro attiva l'esame congiunto press l'ITL in vista di un prefigurato licenziamento individuale.
Se la procedura di esame congiunto si è conclusa con la risoluzione consensuale, anche se essa interviene nel perimetro della procedura di licenziamento individuale per motivo oggettivo imposta ex art. 7 per i vecchi assunti, non siamo davanti ad un licenziamento in senso stretto e si resta fuori dal computo dei licenziamenti funzionali alla procedura collettiva.
Alla luce di queste conclusioni, si sarebbe propensi ad affermare che la partita sia chiusa qui.
Siamo, cioè, di fronte ad un ripensamento totale della Suprema Corte, tale da fugare le preoccupazioni indotte dalla precedente decisione, sempre della Cassazione, rispetto al computo dei lavoratori "receduti per scelta" nel numero dei licenziamenti utili per determinare se sia stata raggiunta la soglia che impone la procedura collettiva.
Qualche forte perplessità rimane, tuttavia, perché la motivazione della sentenza n. 15118 ha delle zone d'ombra preoccupanti. Se andiamo a leggere la scarna motivazione, troviamo incredibilmente riprodotte le stesse, identiche, considerazioni che nell'ordinanza della Suprema Corte n. 15401 erano state espresse per affermare la tesi contraria del calcolo nel numero dei licenziamenti, ai fini della procedura collettiva ex Lege 223/1991, delle risoluzioni consensuali indotte da un sostanziale cambiamento delle condizioni di lavoro.
Testualmente, si legge in un passaggio della sentenza che "rientra nella nozione di <licenziamento> il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo".
L'incoerenza della motivazione è tale da imporre estrema cautela nella gestione degli esuberi post divieto dei licenziamenti economici. Lo stesso fatto che nel breve spazio di qualche mese la Cassazione sia uscita con due decisioni l'una tesa a smentire l'altra non consente di mettere un punto definitivo sulla (scivolosa) questione. Il senso della saponetta tra le mani è, insomma, forte.

avv. Giuseppe Bulgarini d'Elci, partner Watson Farley & Williams

 

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