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     n. 17 anno 2020

Risoluzioni consensuali e licenziamenti collettivi: la posizione della Cassazione fra coerenza e contraddizione

di Stefano Piero Luca Miniati

Con l'ordinanza n. 15401/2020 (di recente pubblicazione) la Cassazione ha ampliato, per via interpretativa, le tipologie di cessazione di rapporti di lavoro da considerare ai fini dell'applicazione della L. n. 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi, includendovi anche le risoluzioni consensuali sottoscritte in caso di rifiuto di un trasferimento.

Come noto, tale legge prevede che i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, ove intendano effettuare più di 5 "licenziamenti" per ragioni oggettive nell'arco di 120 giorni (in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell'ambito di una stessa provincia), debbano rispettare l'articolata procedura prevista dalla L. n. 223/1991.

Il precedente orientamento, dunque, considerava il termine "licenziamento" in senso stretto e, conseguentemente, escludeva da tale computo le cessazioni determinate anche dalla volontà del lavoratore: in particolare, non erano da computare nei "5 licenziamenti" le risoluzioni consensuali e le dimissioni (per qualsiasi ragione intervenute).

Con la pronuncia in commento, invece, la Cassazione afferma, al contrario, che devono essere computate le risoluzioni consensuali, ove siano determinate da una modifica unilaterale da parte del datore di lavoro di un elemento sostanziale del contratto, a svantaggio del lavoratore e per ragioni non inerenti a comportamenti di quest'ultimo.

In particolare, nel caso all'esame della Corte, si trattava di alcune risoluzioni consensuali sottoscritte in conseguenza di un rifiuto di un trasferimento, che, secondo la Corte, avrebbero dovuto essere computate fra i 5 "licenziamenti", comportando l'obbligo (disatteso dal datore di lavoro interessato) di avviare la procedura di licenziamento collettivo in relazione ad un successivo licenziamento (oggetto del giudizio).

La Cassazione fonda la propria decisione su due fondamentali principi stabiliti in materia dalla Corte di Giustizia UE.

Il primo, per cui, "le nozioni che definiscono la sfera di applicazione della direttiva" Direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi "ivi compresa la nozione di «licenziamento», non possono essere interpretate restrittivamente" e, pertanto, possono ricomprendere atti anche diversi da un licenziamento in senso stretto.

Il secondo, a mente del quale "qualsiasi normativa nazionale o interpretazione di detta nozione che conduca a ritenere che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, la risoluzione del contratto di lavoro non costituisca un «licenziamento», ai sensi della direttiva 98/59, altererebbe l'ambito di applicazione di detta direttiva, privandola così della sua piena efficacia" (Corte di Giustizia UE, 11 novembre 2015, causa C-422/14).

L'impostazione della Cassazione è stata ampiamente criticata in dottrina, in quanto il caso trattato dalla Corte di Giustizia UE sarebbe del tutto diverso da quello all'esame della Corte Italiana.

Tuttavia, a ben vedere, la conclusione cui giunge la Cassazione pare coerente, almeno in parte, con alcune interpretazioni, sia della giurisprudenza, che di alcuni enti, presenti nel nostro ordinamento, come anche con il dettato della Direttiva 98/59.

In particolare, il fatto che la cessazione di un rapporto di lavoro per rifiuto di un trasferimento sia un'ipotesi riconducibile, a determinate condizioni, a ragioni di natura oggettiva (e, pertanto, astrattamente, possa essere ricompresa nel limite dei 5 "licenziamenti" di cui alla disciplina sui licenziamenti collettivi), è stato già confermato dalla giurisprudenza. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, ove il trasferimento derivi dal mutamento della sede aziendale nell'ambito di un processo di riorganizzazione, "il rifiuto del lavoratore al trasferimento presso la nuova sede di lavoro rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo" (Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 25615/2013).

Ma che anche alcuni effetti di una risoluzione consensuale, in determinati casi, siano i medesimi di un licenziamento individuale per GMO è pacificamente riconosciuto dall'INPS (cfr. messaggio n. 369/2018 e circolare n. 108/2006), proprio con riferimento alle risoluzioni consensuali intervenute a seguito del rifiuto al trasferimento ad altra sede (se distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici). In tali casi, infatti, in virtù della natura necessitata e non volontaria di siffatte cessazioni, l'ente previdenziale riconosce la possibilità per i lavoratori coinvolti di accedere ai trattamenti di disoccupazione, spettanti, di regola, in caso di "disoccupazione involontaria" derivante da un licenziamento per ragioni oggettive.

Inoltre, è proprio la direttiva UE citata dalla Corte di Giustizia UE e richiamata dalla Cassazione (Direttiva 98/59) ad affermare che nel calcolo dei 5 "licenziamenti" devono essere "assimilate ai licenziamenti le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore".

Pur in presenza di tali elementi, tuttavia, che sembrerebbero avvallare, almeno in parte, l'interpretazione data dalla Cassazione, la pronuncia in commento appare lacunosa, in quanto non chiarisce quali cessazioni derivanti anche dalla volontà del lavoratore debbano essere considerate nel computo dei "5 licenziamenti", aprendo la via ad ulteriori rilevanti interpretazioni estensive.

Infatti, allargando ulteriormente il principio affermato dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, si potrebbe sostenere che non solo le risoluzioni consensuali analizzate nel caso di specie, ma tutte le cessazioni (incluse le dimissioni) causate da un'iniziativa del datore di lavoro debbano essere considerate nel computo dei "5 licenziamenti" in questione (arrivando, in estrema ipotesi, a includere nel novero di tali "licenziamenti" anche atti del tutto diversi, quali le dimissioni per giusta causa, se giustificate da una modifica sostanziale in pejus del rapporto di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro).

Il punto, probabilmente, meritava maggior approfondimento da parte degli Ermellini, soprattutto per gli effetti dirompenti che la nuova impostazione, se interpretata estensivamente come sopra accennato, potrà generare.

La recente ordinanza della Cassazione, ad ogni modo, pare avere un impatto ancor più rilevante nell'attuale contesto normativo, che ha visto, negli ultimi mesi, anche a fronte del blocco dei licenziamenti (oggi ridisegnato dal Decreto Agosto, ma sempre presente), un forte incremento delle risoluzioni consensuali.

Ciò che è certo, comunque, a prescindere dal merito della questione, è che l'adozione di licenziamenti individuali per ragioni oggettive, una volta cessato il divieto derivante dalla normativa emergenziale, dovrà essere preceduta da un'attenta valutazione retrospettiva di tutte le cessazioni di rapporti di lavoro intervenute nei precedenti 120 giorni.

Avv. Stefano Piero Luca Miniati
Deloitte Legal - Società tra Avvocati r.l., team Employment & Benefits

 

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