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     n. 4 anno 2020

Imprenditori, manager e HR: lasciatevi abbracciare dalla cultura per vivere nella complessità

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Abbiamo bisogno di conoscenze o serve essere capaci di pensare? Di entrambe, viene di rispondere. Proviamo a riformulare allora la domanda così: realmente oggi, cosa cerchiamo per noi e cosa cerchiamo, per esempio, quando ci accingiamo ad assumere un collaboratore? Difficile dirlo, sappiamo però che è diffusa l'idea che in quest'epoca accelerata, nella quale ogni cosa si consuma nel presente che diventa attimo, è meglio essere bene attrezzati per rispondere immediatamente alle esigenze del momento. Occorre la tecnica per vivere, o meglio per sopravvivere. Per questo talvolta infastidisce chi cerca di mettere in secondo piano, anche se per poco tempo, la tecnica e le sue risposte che placano l'ansia che ci divora per far posto invece all'esperienza del pensare alzando la testa. Per riappropriarci del nostro unicum di donne e uomini, che significa dare cittadinanza organizzativa all'immaginazione, riflettere su altre possibilità, discutere ciò che viene proposto come verità per verificarne la fonte e valutarne affidabilità e reputazione.
Pensare insomma è espressione propriamente umana, che richiama lo stato di permanente essere di fronte alla κρ?σις, ossia al dover distinguere, giudicare, valutare e soprattutto scegliere.
Ma non è proprio questo quello che chiamiamo cultura? Una cultura alimentata nella nostra tradizione classica da filosofia, letteratura, poesia e arte, insomma dalle humanities?
Allora, se la cultura serve per scegliere e quindi per indirizzare l'agire, campo elettivo dell'impresa e del management, i luoghi di lavoro e, ancor prima, quelli dove si formano imprenditori e manager dovrebbero essere laboratori permanenti di cultura.
E' così? Non proprio a prestare ascolto a chi vive e anima questi luoghi. Si preferisce di nuovo progettare "tecniche" per gestire la cultura non per coltivarla, cadendo di nuovo nel campo delle conoscenze mettendo a tacere quello del pensare.
La verità è celata da uno schermo prestazionale: la cultura intesa come insieme di linguaggi, pratiche e atteggiamenti che sviluppano pensiero autonomo e spirito critico si considera inutile. Un lusso che la vorace e famelica tecnica non può permettere perché, come scrive il filosofo da poco scomparso Emanuele Severino, "oggi come non mai lo spirito è debole di fronte alla carne" che ha incorporato la razionalità occidentale(1). Eppure negli stessi luoghi (imprese, business school) si ascoltano voci che piangono disperatamente la mancanza di pensiero critico, lamentando la carenza di un'educazione a pensare capace di tener testa a un conformismo dilagante che appiattisce la vita, l'economia e l'impresa.
C'è una nota storia di David Foster Wallace, tratta dal discorso che fece il 21 maggio 2005 al Kenyon college per la cerimonia delle lauree, che aiuta a riflettere sull'urgenza che anche nei luoghi di cui parliamo si diffonda la pratica di interrogarsi sul'ambiente in cui viviamo, su quello che si sta facendo, sulle sue ragioni e implicazioni. La storia è questa(2):

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all'altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice "Buongiorno ragazzi. Com'è l'acqua?". I due giovani pesci continuano a nuotare per un po', e poi uno dei due guarda l'altro e gli chiede "ma cosa diavolo è l'acqua"?

Una storia che ha colpito molti. E' davvero inutile accrescere la consapevolezza di chi siamo e di quale pasta (storia, valori ecc.) siamo fatti? Nuccio Ordine, un accademico di chiara fama internazionale, scrittore e editorialista, scrive che non abbiamo coscienza che "la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l'istruzione costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di giustizia, di laicità, di uguaglianza, di diritto alla critica, di tolleranza, di solidarietà, di bene comune possono trovare un vigoroso sviluppo"(3). Converrebbe allora riposizionare le idee al riguardo considerando la cultura, anche nelle imprese e tra i suoi protagonisti, con lo sguardo che le riconosce una salvifica utilità. Adriano Olivetti docet: "La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica, giusto?"
Quando le imprese e chi le guida abbracciano quest'idea costruiscono le condizioni per un benessere duraturo, quello che il solo investimento nelle conoscenze, per loro natura caduche e destinate a diventare ben presto obsolete, non può assicurare. Nell'epoca della quarta rivoluzione industriale, nella quale si combinano digitalizzazione e automazione, robotica e intelligenza artificiale, non possiamo cadere nelle reti insidiose della tecnica, occorre piuttosto un colpo d'ali per ritornare a investire, con format educativi "su misura" e contenuti appropriati, sulla cultura in impresa, sulla cultura di donne e uomini, di manager, professional e tecnici. Si tratta di una risorsa insostituibile per allenare profili manageriali e imprenditoriali ad affrontare la complessità, la diversità e la connettività crescente tra persone, robot e oggetti.

1)Severino E., Téchne Le radici della violenza, Bur Rizzoli, Milano, 2010, p. 19.
2)Si può leggerla qui: https://www.nazioneindiana.com/2008/10/08/kenyon-college-and-me/
3)Ordine N., L'utilità dell'inutile, Bompiani, Milano, 2013, pp. 40-41
 

Gabriele Gabrielli
Executive Coach, consulente e formatore è Consigliere delegato di People Management Lab S.r.l Società Benefit, insegna HRM & Organisation alla LUISS e alla LUISS Business School è Professor of Practice in People management, HRM e Organisation, Organisational Behaviour. E' ideatore, co-fondatore e Presidente della Fondazione Lavoroperlapersona
 

 

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