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     n. 2 anno 2020

Contro Canto n. 115 (stimoli da 708 a 712)

di Massimo Ferrario

di Massimo Ferrario

# DECIDERE, se fossimo un po' irochesi (708)
Prendere decisioni, per un irochese (*), è una questione che va molto al di là del momento e dell'ambito limitato delle persone riunite attorno al fuoco dell'accampamento.
Quando gli irochesi prendono una decisione, la prendono pensando di onorare gli antenati e di sostenere la progenie non ancora nata. Si chiedono se la decisione presa oggi risponde agli insegnamenti degli avi e ai desideri dei pronipoti. La cultura degli irochesi è unica, avendo istituzionalizzato una visione specifica del futuro in tutte le decisioni da prendere.
Un capo irochese si esprime così: «Noi guardiamo avanti, perché uno dei primi mandati assegnati a noi, che siamo i capi, è di garantire che ogni decisione da noi presa tenga conto della prosperità e del benessere della settima generazione a venire e questo è il fondamento per le nostre decisioni in assemblea. Ci chiediamo: la nostra decisione andrà a beneficio della settima generazione? Questa è la nostra regola».
(Jeremy RIFKIN, economista e sociologo statunitense, Guerre del tempo, 1987, Bompiani, Milano, 1989). - (*) Gli irochesi erano una confederazione di 5 tribù di nativi americani, risalenti al 16° secolo e tuttora presenti tra Usa e Canada: abitavano i territori del nord-est corrispondenti all'attuale stato di New York. (mf)

# DELEGA, così si vincono le grandi battaglie (709)
Forse uno dei più rappresentativi esempi dell'importanza della delega per il successo di un'impresa fu, per gli storici militari, la famosa battaglia di Midway.
A determinare la vittoria della flotta americana su quella giapponese, numericamente e tecnologicamente superiore fu, insieme con la fortuna e le preziose informazioni dell'intelligence, la flessibilità di comando e il sistema di delega che contraddistinse l'azione militare alleata.
Midway fu una delle più grandi battaglie navali della storia, quasi pari come quantità di uomini impegnati nello scontro a Salamina (400.000) e a Lepanto (380.000). Su un teatro di guerra di 1600 km la sola flotta giapponese impegnò 86 navi di cui 4 portaerei, 100.000 tra marinai e piloti, 20 ammiragli. E la flotta americana fu poco meno. Il comando e il coordinamento di tali schieramenti implica una complessità organizzativa di proporzioni inaudite. Mentre il comando dell'ammiraglio Yamamoto si fondò su principi di rigida disciplina e scarsa autonomia operativa, quello di Nimitz fu molto più flessibile e i suoi ordini furono abbastanza elastici da consentire modifiche durante la battaglia. Egli ordinò agli ammiragli Fletcher e Spruance di «... raggiungere sul fianco la superiore flotta giapponese, colpirla con tutto ciò di cui disponevano, e infine ritirarsi una volta che le navi di superficie giapponese si fossero precipitate a dare soccorso. I dettagli del piano d'attacco - in pratica il tipo di schieramento delle navi stesse - furono lasciati alla discrezione di Fletcher e Spruance» (*). Gli stessi piloti americani trovarono i giapponesi grazie al loro spirito d'iniziativa, spingendosi oltre le rotte pianificate. Tale iniziativa, impensabile nel rigido sistema di comando giapponese, si manifestò anche durante i bombardamenti, quando singoli piloti disattesero schemi di battaglia pianificati, limitandosi a interpretare i principi espressi dai loro superiori. Fu grazie a ciò che la Hiyru fu affondata e l'incrociatore pesante Magami, gravemente danneggiato e che entrambi subissero colpi devastanti da bombardieri americani che avevano ricevuto ordine di posizionarsi altrove. Fu proprio questa battaglia a indurre gli eserciti di tutto il mondo a rivedere i propri schemi di comando, introducendo concetti fino ad allora sottovalutati: delega e flessibilità. A partire dal secondo dopoguerra tali principi diventarono un imperativo anche di ogni grande organizzazione civile, inducendo anche un più generale ripensamento dell'intero sistema d'autorità.
(Nanni OLIVERO, consulente di direzione, Il volto irrazionale del management e l'etica della leadership, FrancoAngeli, Milano, 2004 . - (*) V. D. Hanson, Massacri e cultura. Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo, Garzanti, Milano, 2002).

# DIFETTO, come trasformarlo in opportunità (710)
... Lexus seppe trasformare una difettosità iniziale in un'opportunità di rafforzamento dell'immagine di marca. Poco dopo il lancio negli Stati Uniti del nuovo marchio Lexus da parte della Toyota, il fabbricante giapponese scoprì un problema di qualità che forse, ma soltanto forse, avrebbe potuto costringerlo a effettuare un richiamo tecnico. L'opinione comune dice che la difettosità in fase di lancio può danneggiare per sempre un nuovo brand, giacché il pubblico si sta ancora formando una prima impressione. È presumibile che ci sia stato chi abbia fatto appello alla «voce della ragione», consigliando all'azienda di nascondere il problema o cercare di minimizzarlo. Naturalmente, Toyota fece ben altro: contattò i proprietari di Lexus, uno per uno, per informarli che la loro vettura poteva avere un problema. E poi ribaltarono la situazione. Per procurare ai loro nuovi clienti il minimo fastidio possibile, mandarono un tecnico a casa o all'ufficio di ogni singolo cliente per diagnosticare e, se necessario, riparare l'automobile sul posto. In corso d'opera, il tecnico lavava l'auto, per farla apparire alla riconsegna migliore di prima dell'intervento, un segno di sensibilità che da quel momento è entrato a far parte della formula standard di Lexus di assistenza ai clienti. Per quanto ne so io, l'idea di effettuare visite a domicilio presso tutti i proprietari di automobili della propria marca non ha precedenti nella storia dell'industria automobilistica. I clienti apprezzarono questo comportamento e ne presero nota. Invece di danneggiare l'immagine della marca, il programma di ispezioni offrì a ogni proprietario di una Lexus l'opportunità di vantare con amici e conoscenti lo straordinario servizio cui avrebbe avuto accesso con la sua nuova auto. Fu un'idea costosa da realizzare? Sicuramente sì. Ma diventò una componente chiave della strategia aziendale a lungo termine, quella di costruire un nuovo brand di lusso partendo da zero e diventare il numero uno in termini di soddisfazione del cliente. Con il senno di poi, si trattò di un eccellente investimento che contribuì a creare una buona reputazione solida e duratura.
(Tom KELLEY, statunitense, consulente di innovazione e general manager di Ideo, I dieci volti dell'innovazione, con Jonathan Littman, 2006, Sperling & Kupfer, Milano, 2006).

# DONNE & LAVORO, la via della leadership è più ripida (711)
La cosa più penosa in una società che tende all'uguaglianza, nella quale sempre più donne stanno acquisendo posizioni caratterizzate da uno status elevato, è che le donne dotate di autorità si trovano strette in un doppio laccio. Se parlano utilizzando lo stile normalmente adottato dalle donne vengono considerate delle leader inadeguate. Se invece utilizzano lo stile tipico dei leader, vengono considerate donne inadeguate. La via verso l'autorità è molto ripida per le donne e una volta giunte in cima si trovano su un letto di spine.
(Deborah TANNEN, statunitense, docente di linguistica, Ma perché non mi capisci?, Frassinelli, Milano, 1992, citata da Maria Cristina Bombelli, La passione e la fatica. Gli ostacoli organizzativi e interiori alla carriera femminile, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004).

# IMPRESA, tanto per essere chiari (712)
Il padrone è il socio del suo operaio, l'operaio è socio del padrone. (...)
Dagli uomini ci aspettiamo che facciano ciò che si chiede loro di fare. L'organizzazione è specializzata in misura così elevata che ogni singola parte dipende così strettamente da tutte le altre che non possiamo pensare neanche per un momento di permettere agli uomini di fare quello che vogliono (...).
Gli uomini si trovano in fabbrica per svolgere la massima quantità possibile di lavoro e per ricevere la massima quantità possibile di paga. Se a uno si permettesse di fare quello che vuole, la produzione ne risentirebbe e quindi ne risentirebbe anche la paga. Se qualcuno non gradisce lavorare a modo nostro, può sempre andarsene.
(Henry FORD, 1863-1947, imprenditore statunitense fondatore di Ford Motor Company, Autobiografia, a cura di S. Crowther, Rizzoli, Milano, 1982, citato da Domenico De Masi, La fantasia e la concretezza, Rizzoli, Milano, 2003).

Massimo Ferrario, consulente di formazione e di sviluppo organizzativo, responsabile di Dia-Logos 

 

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