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     n. 1 anno 2020

PMI: una vita da mediano: per crescere servono competenze manageriali

di Beniamino Piccone e Alessandro Magnoli Bocchi

In preparazione al convegno AIDP ANDAF del 16 gennaio su "Temporary e Fractional Management per PMI e start up" ( https://www.aidp.it/registrazioni/registrati-evento.php?evento=temporary-e-fractional-management-in-PMI-e-start-up.php ) presentiamo un'interessante modello interpretativo sui bisogni di competenze manageriali di questo particolare comparto della nostra economia.

Guardiamo in faccia la realtà. L'Italia non cresce. Tra i tanti motivi, forse il più sorprendente è la mancanza di bravi manager, soprattutto nelle PMI..

Le PMI sono la dorsale dell'economia italiana, ma non creano occupazione né sviluppo tecnologico. Le PMI della Penisola sono tantissime, per lo più minuscole, e danno lavoro alla maggioranza degli Italiani - ben al di là della media: i) dell'Unione europea (Ue)e ii) dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Con un ruolo così sistemico, la loro incapacità di crescere è diventata un enorme freno per il Paese. Da decenni, le PMI: a)sopravvivono in qualità di terzisti; b) si servono di pratiche gestionali ‘artigianali e inefficienti'; c) pagano salari bassi; e d)sfuggonoa regole e tasse.Preoccupa anche l'‘anzianità'di queste imprese (nel senso che sono attive da molti anni): è proprio quando le PMI crescono - e dunque smettono di essere tali, "sparendo" dalle statistiche - che si creano posti di lavoro e innovazione.

Perché le PMI non crescono? Il nanismo dell'impresa italiana - l'incapacità di crescere a livello dimensionale - è frutto di: 1) una gestione familiare da "padre padrone" refrattario al cambio; 2) eredi non all'altezzamessi in ruoli chiave; e 3)della nefasta cultura del "piccolo è bello".

Il "one man show", spesso in buona fede, del ‘padre padrone'. Di norma, più per mancanza di competenze manageriali che per cattivo carattere, il fondatore fa il bello e il cattivo tempo - con buona pace della "corporate governance" e dei "checks and balances" interni. I dati parlano chiaro; in Italia: 1) le imprese familiari hanno una minor probabilità - rispetto ad altre di più grandi dimensioni - di essere dirette da un laureato; 2) le imprese di singoli individui e familiari tendono ad avere una quota più bassa di laureati rispetto alle altre imprese (6,6 vs 10,9 per cento); e 3) il basso livello d'istruzione dei componenti della famiglia proprietaria è un altro motivo a cui ricondurre il nanismo. E il finale è già scritto: se la piccola impresa si fonda su di una sola persona che accentra tutte le decisioni importanti, quando la persona viene a mancare, la struttura si sfalda in pochi anni - inevitabilmente.

Eredi non all'altezza, in ruoli strategici. In una società a controllo familiare, la selezione del personale non è meritocratica perché influenzata da un fattore decisivo: la fiducia. Se manca la fiducia, invece del manager serio viene scelto il figlio o il nipote. In altre parole, la fedeltà vince sulla competenza. Spesso gli eredi non sono all'altezza, o sono stati così viziati dai genitori che non hanno voglia di prendersi l'impegno quotidiano della fatica. Secondo Luigi Zingales: «Il processo di selezione dei talenti è così marcio che nel Bel Paese molte persone, soprattutto donne e dotate di tutte le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono a affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso incapace. Per questo in Italia ci sono le migliori segretarie e i peggiori manager».

Le PMI soffrono di "distorsioni cognitive". Un tempo si poteva essere competitivi anche senza una "cassetta degli attrezzi" evoluta. Nel 2019 non più. Bisogna, per esempio, stare attenti anche alle"distorsioni cognitive", che sono "deviazioni sistematiche dalla razionalità nel momento della formulazione del giudizio" e portano a "distorsioni della valutazione causate dal pregiudizio". La PMI soffrono due fenomeni noti nella letteratura: A) l'"effetto Dunning-Kruger" (che porta gli eredi incompetenti a diventare arroganti) e B) "il paradosso di Berkson" (che porta ad assumere impiegati poco produttivi).

A) Effetto Dunning-Kruger: gli individui poco capaci tendono a: 1) sopravvalutare le proprie abilità - autovalutandosi, a torto, come "esperti"; e 2) divenire estremamente supponenti con inesorabile rapidità (Figura 1). Il caso di molti esponenti politici è eclatante (chi ha orecchie per intendere, intenda). I "veri esperti" soffrono della distorsione inversa: mentre chi non è "esperto" fatica a riconoscere i propri limiti ed errori, il "vero esperto" non è completamente conscio della propria competenza e - ahimè - vede negli altri un grado di conoscenza equivalente al proprio. Secondo Dunning e Kruger: «l'errore di valutazione dell'incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri».

Figura 1. Senza competenze si diventa arroganti, e poi si cade

 

 

 

 

 

Fonte: Business Times, 2019.


B) Paradosso di Berkson: in teoria, esiste una correlazione positiva tra: a) le competenze degli impiegati (riassunte nel CV e nelle qualifiche); e b) la loro efficacia sul posto di lavoro; in altre parole, più un impiegato è competente e più diventa produttivo. Nella Figura 2, ogni cerchio nero corrisponde a un lavoratore. Come si può vedere, i cerchi neri - che rappresentano il mercato del lavoro -) sono più o meno distribuiti con una correlazione positiva tra "skills" (competenze) ed "effectiveness" (efficacia o produttività). Sfortunatamente per le PMI, alcuni di questi individui sono troppo costosi (area rossa) mentre altri non sono impiegabili - per mancanza di esperienza o perché comunque percepiti come poco produttivi (area blu). Una volta sottratte le aree blu e rossa, rimane l'area bianca, che rappresenta i dipendenti della PMI: i più qualificati risultano i meno efficaci, mentre i meno qualificati sono i più produttivi. In altre parole, quando assumono, i datori di lavoro creano un trade off tra competenze ed efficacia, che nella PMI si trovano in "correlazione negativa" (Figura 2).


Figura 2: nelle PMI, spesso gli impiegati più qualificati sono i meno produttivi

 

 

 

 

Fonte: Brilliant.org, 2019. 


Basso costo del lavoro, no ai manager che vengono da fuori. Le PMI hanno un costo del personale inferiore, perché: a) pagano salari più bassi; b) non sono soggette agli stessi oneri sociali delle imprese più grandi; e c) impiegano persone "in nero". Il rapporto tra "valore aggiunto" e "costo del personale" è nettamente più alto per le micro-imprese (2,6) che per le altre imprese (tra 1,4 e 1,5); così, queste ultime- spinte da costi di produzione elevati che ne riducono i margini di profitto - finiscono per creare lavoro fuori dall'Italia. Nella piccola impresa si vive un circolo vizioso: il fatturato è così basso, i margini sono così esigui (erosi anche da elevati oneri finanziari legati ad una struttura del passivo dotato di poco equity e molto debito) che non ci si può permettere di pagare un amministratore terzo - fuori dalla cerchia familiare - in grado di traghettare l'impresa verso una dimensione adeguata alla competizione internazionale. Insomma, senza un conto economico di spessore, alle PMImancano le risorse per pagare i migliori.

Piaccia o no, è cambiato il mondo: oggi, "piccolo è brutto". In passato, "piccolo era bello": tante piccole imprese - agglomerate in distretti - riuscivano a superare i problemi strutturali del Bel Paese grazie alla loro flessibilità, e spingevano la crescita. Con la "crisi dei sette anni" - dal 2009 al 2016 - e il relativo crollo della domanda interna - il sistema si è bloccato. Si sono salvate solo le imprese con una forte vocazione all'internazionalizzazione, che richiede: 1) una strategia e una struttura organizzativa chiare; 2) la capacità di gestire processi complessi su più mercati; e 3) l'adozione continua di nuove tecnologie, inclusa la generazione e l'uso di dati. Tutte cose che troppe PMI non hanno.

Ci vogliono imprese meritocratiche, con al timone gente preparata. I manager di talento preferiscono lavorare in una società quotata, dove sanno di poter essere valorizzati al meglio, e sono meno disposti a lavorare in una PMI, dove il ‘soffitto di vetro' si fa sentire in modo rilevante, posto che i membri della famiglia vogliono mantenere le redini dell'azienda. Tutto ciò ha sinora portato l'impresa a non potersi avvalere di management all'altezza. Nulla di nuovo, siamo in Italia. Come soleva ripetere Indro Montanelli, "Il bordello è l'unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto". Tuttavia, un circolo virtuoso è possibile. Se il capo azienda è laureato: 1) l'impresa ha una quota di laureati tripla rispetto alle altre imprese; e 2) c'è una maggiore propensione ad assumere un manager esterno alla famiglia.

Beniamino Piccone e Alessandro Magnoli Bocchi Presidente e Vice Presidente di APE - Associazione per il Progresso Economico 

 

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