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     n. 13 anno 2019

Salario minimo: è davvero utile?

di Roberto D’Incau

Non c'è solo il clima ad essere molto caldo in questi giorni, lo è anche il dibattito sul salario minimo, che occupa i talk show televisivi e le copertine dei quotidiani.

Analizzato da un mero punto di vista teorico, si potrebbe dire che a tendere ci potrebbe essere un salario minimo definito in tutta la U.E.: difficile dire che non sarebbe giusto farlo.

Preciso che quando parliamo di salario minimo, ragioniamo su una forma particolare di povertà, quella dei "lavoratori poveri", i workingpoor: le persone cioè che lavorano ma che hanno un reddito talmente basso da essere vicini, o addirittura sotto, la soglia di povertà; sono il del 12% degli Italiani.

L'Italia presenta, in effetti, una realtà del mercato del lavoro tutta propria: a differenza che in altri paesi, oltre l'80% dei lavoratori beneficia delle condizioni contrattuali previste dalla contrattazione collettiva, che è un vero ginepraio, con oltre 800 contratti collettivi. I metalmeccanici, ad esempio, che sono una categoria unica hanno oltre venti contratti nazionali di lavoro: una gran confusione, come sappiamo.

Fatta la legge, trovato l'inganno, come spesso avviene in Italia: l'anno scorso uno studio analizzò quanto i minimi salariali presenti dalla contrattazione collettiva fossero effettivamente corrispondenti agli stipendi dei lavoratori dipendenti. Le sorprese non furono poche. E' stato calcolato che circa il 10% dei lavoratori italiani percepisce un salario inferiore del 20% rispetto ai minimi, con una percentuale crescente soprattutto nelle imprese più piccole e nelle regioni del Sud. La realtà italiana è fatta, come sappiamo di aziende perfettamente in regola, ma anche di aziende che impongono ore lavorate in nero, sotto-inquadramenti, a volte persino soldi restituiti ai datori di lavoro: ci sono tante forme attraverso le quali i minimi contrattuali non vengono rispettati.

La mia riflessione è che quello che potrebbe succedere col salario minimo imposto in un sistema economico come quello italiano è:

  • il rischio serio di fare esplodere il lavoro nero: sta già succedendo, ci sono dei segnali di forte preoccupazione che arrivano anche dall'INPS;
  • l'esplosione delle partite IVA: da gennaio a marzo più di 196 mila italiani hanno aperto nuove partite iva, con un incremento del 7.9% rispetto allo stesso periodo del 2018 (sottolineo che le nuove aperture di partite IVA di soggetti tra i 51 e i 65 anni crescono del 21,6%);
  • il mercato del lavoro italiano, già non propriamente florido, risulterebbe ingessato da costi insostenibili, soprattutto in zone in cui per rilanciare l'occupazione sarebbe probabilmente necessario l'opposto, ossia più flessibilità sui salari;
  • con un salario minimo elevato le imprese potrebbero disdettare i contratti collettivi per diverse ragioni, con un peggioramento delle tutele generali dei lavoratori.
  • il numero dei "lavoratori poveri, i workingpoor rimarrebbe alto. La povertà è data dalle ore lavorate più che dal salario orario, e il salario minimo non andrebbe a incidere sulla situazione.
La mia opinione è che la povertà non la cancelli con un decreto, sia esso il reddito di cittadinanza o il salario minimo, ma con una revisione strutturale di alcune fondamenta macro del nostro sistema. Va affrontata, ad esempio, una seria revisione del sistema della rappresentanza, quella che regola i contratti collettivi di lavoro, lasciando che solo i sindacati più rappresentativi, e non realtà del tutto insignificanti, possano partecipare alla contrattazione collettiva; fare questo significherebbe affrontare il problema dalla radice, non dall'epifenomeno, che sarà anche televisivamente impattante, ma temo di dubbia efficiacia in un sistema economico come quello italiano, apparentemente iper regolamentato, in realtà come ben sappiamo con ampie sacche di "deregulation".

Roberto D'Incau, Founder&CEO Lang&Partners Younique Human Solutions 

 

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