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     n. 19 anno 2017

Contro Canto n. 96 (stimoli da 576 a 581)

di Massimo Ferrario

di Massimo Ferrario

FACEBOOK, dall'intimità all'estimità (576)
Secondo lo psichiatra e psicanalista Serge Tisseron i rapporti significativi sono passati dalla ‘intimità' a quella che lui chiama ‘estimità'. Volendo fissare un punto si può pensare a metà degli Anni Ottanta, quando a un talk show francese tale Vivianne dichiarò di non avere mai avuto un orgasmo perché suo marito era affetto da eiaculazione precoce. Non si trattava solo di rendere pubblici atti privati. Ma anche di farlo in un'arena aperta.
[D: Su Internet puoi dire le stesse cose celando la tua identità] E' vero. C'è una grande sensazione di impunità. Sono sicuro che ci sono migliala di messaggi crudeli come quelli di Breivik in rete. Intervenire è impossibile, non possiamo leggere tutto. Ma se sei timido e cerchi una ragazza la rete è un dono di Dio.
[D: Qual è il segreto di Zuckerberg?] Immagino che molti dei suoi utenti non riuscissero a sfuggire alla propria solitudine. In più dovevano sentirsi penosamente trascurati. Zuckerberg li ha liberati.
[D: Perché abbiamo bisogno di un confessionale virtuale?] Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici. Vogliamo essere individui speciali, diversi, con sogni unici. Ma quando abbiamo lavorato così duramente per creare la nostra identità dobbiamo andare in piazza e vederla confermata.
[D: Mancanza di autostima?] Natura. L'identità è un segreto e una contraddizione in termini. L'arena pubblica è l'equivalente dell'Agorà. Solo che adesso è popolata dal racconto di problemi privati. Il talk show è la piazza. E il nostro modello non sono i politici, ma le celebrità. E chi sono le celebrità? Persone conosciute per essere molto conosciute. Su Facebook c'è una rubrica specifica. Si chiama: ‘I like it'. Sono gli altri che esprimono il loro apprezzamento per quello che facciamo. E il numero delle persone che ci visitano definiscono il nostro successo. E' la società dei consumi. Se non ti vendi sei destinato a una vita miserabile. (Zygmunt BAUMAN, 1925-2017, sociologo e filosofo polacco, docente emerito all'università di Leeds, intervistato da Andrea Malaguti, ‘tuttolibri', 27 agosto 2011).

CORNICI, molte persone (577)
«Di molte persone si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice».
La moglie di un mio amico si dilettava di pittura. Il marito, suo ammiratore e innamorato, inseriva quei dipinti in preziose cornici antiche. Durante una vacanza i ladri visitarono l'abitazione e al ritorno, allibiti, i coniugi trovarono per terra tutte le tele, naturalmente senza le cornici. Nella frase sopra citata Emile Cioran, l'ateo teologo di cui celebriamo quest'anno il centenario, sembra trasformare in metafora il mio apologo. Sì, molti sono tutto e solo cornice, cioè apparenza, esteriorità, vanità, finzione, illusione; sotto il vestito, niente. La regola capitale del successo è, soprattutto nell'era televisiva, l'apparire, il trucco, la superficie. Per dirla con un collega di Cioran, Gide, «in questo mondo l'importante è non aver mai l'aria di ciò che si è». Ricordiamo, allora, che non è tutto oro quel che luccica, ma in verità neppure tutto quel che è oro luccica. (Gianfranco RAVASI, cardinale, biblista e teologo, La cornice, rubrica ‘Breviario', riproduzione integrale, ‘domenica', supplemento a ‘Il Sole 24 ore', 21 agosto 2011).

RELIGIOSITÀ, e il ‘deus sive natura' di Spinoza (578)
Come criterio personale, tendo a considerare con sospetto i gruppi religiosi che considerano indispensabile «salvarci» anche se non lo abbiamo chiesto, e dunque praticano il proselitismo. E guardo invece con simpatia chi evita di farlo (come i seguaci di Osho e i buddisti in senso lato). E provo interesse e rispetto per tutte quelle pratiche che pongono la natura al centro del nostro benessere spirituale: il «deus sive natura» di Spinoza è tra le pochissime frasi guida della mia vita, e quanto alle (...) celebrazioni di novilunio e plenilunio, non le trovo affatto più stravaganti di una processione di flagellanti. Le trovo, anzi, molto più «religiose». (Michele SERRA, giornalista e scrittore, rubrica ‘per posta', ‘Il Venerdì di Repubblica', 20 maggio 2011).

PENSIERO, sbrigativo (579)
[D: Lei parla di rassegnazione come malattia mortale: ne vede parecchia in giro?]
Ho fatto un richiamo alla responsabilità, parola svuotata di ogni significato. Se lo vogliamo veramente, il cambiamento dobbiamo viverlo in noi stessi. Altrimenti le cose resteranno immutabili. Si guardi in giro: cresce l'impoverimento delle famiglie, cresce il penale a scapito del sociale, e la gente ha smarrito profondità. Siamo nell'epoca del pensiero sbrigativo. (Luigi CIOTTI, prete, presidente del gruppo Libera, intervistato da Massimiliano Amato, ‘l'Unità', 20 luglio 2011).

DOLORE, non ha senso (580)
Il dolore ha più o meno un senso? No, non ce l'ha. È pura sofferenza, dovuta al fatto che ci è dato di assistere al decadimento del nostro corpo, al suo spegnersi lungo il percorso di una malattia, dove è opportuno tener presente, come dice Michel Foucault, che «Noi non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire». La morte ci angoscia perché con lei si chiude la comunicazione che avevamo con tutti quelli che ci amavano, e ancora, ma forse soprattutto, perché perdiamo quell'amore fondamentale che nella vita abbiamo coltivato per noi stessi, a cui siamo particolarmente affezionati.
C'è infatti nell'uomo una grande lacerazione; da un lato è un soggetto che dice «Io» e progetta un mondo, dall'altro è un semplice funzionario della specie la quale lo fornisce, per un certo periodo della sua vita, di sessualità per la riproduzione e di aggressività per la difesa della prole. Ma poi lo lascia decadere, perché più non gli serve, anzi trova utile e necessaria la sua morte per garantire la vita alle nuove generazioni.
Chi non si rassegna a questo scenario crede nell'aldilà promesso dalle religioni. E se questa fede aiuta a vivere, perché opporvisi? È mia persuasione che qualunque cosa concorra all'esistenza, o al suo miglioramento, vada accettata. Che siano fedi, che siano illusioni, che siano maschere. Nietszche diceva: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera (...) Dammi, ti prego una maschera ancora! Una seconda maschera». (Umberto GALIMBERTI, filosofo e psicoanalista, rubrica ‘lettere', ‘D', 16 luglio 2011).

SCRIVERE, la ‘ferocia' di oggi (581)
Io ho sempre scritto cose con cui gli editori non hanno fatto una lira. E questo, alla fine, mi ha dato una grande libertà. Sono tra coloro che ancora pensano alla scrittura come a un atto gratuito: si scrive per passare le serate, per coltivare l'interiorità, perché la gratuità è fonte di contentezza. Invece ora pare che si scriva soltanto per fare colpo sul pubblico, per vendere copie, avvinghiati ai fatti e all'attualità, perdendo così completamente la dimensione avventurosa della scrittura, la sua potenza immaginativa. Vedi, in fondo scrivere racconti, favole, sonetti, è come spedire delle lettere. Anche se mi rendo conto che non è più tanto chiaro a chi queste lettere sono indirizzate. E poi, a ben vedere, anche qui salta fuori un tratto di ferocia. Perché gli autori si moltiplicano, lo spazio è quello che è, e dunque per esistere devi fare fuori qualcun altro: a cominciare dai banchi della libreria. Per questo, quando di recente ho pubblicato da Feltrinelli un libro di sonetti, l'accordo era di non vendere il volume in libreria: lo avrei portato in giro io, regalandolo qua e là. Poi mi sono reso conto che la cosa non funzionava. Perché nel momento in cui regali un libro, è come se quel libro perdesse valore. Soltanto uno su mille, capisce il significato del dono. (Gianni CELATI, 1937, scrittore, intervistato da Franco Marcoaldi, ‘la Repubblica', 12 luglio 2011).

Massimo Ferrario, Consulente di formazione e di sviluppo organizzativo, responsabile di Dia-Logos 

 

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