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     n. 10 anno 2018

Le scienze e la gestione delle risorse umane e delle organizzazioni

di Francesco Zanotti

La tesi che intendo sostenere in questo documento non è difficile a descriversi.
Le scienze naturali e umane dicono (rivelano) "cose" intorno all'essere umano e ai sistemi costituiti dagli esseri umani (le organizzazioni e, più in generale, i sistemi sociali) che non possono essere ignorate da chi si occupa (governa, sviluppa) di esseri umani e dei sistemi che essi costituiscono.
Credo che l'esplorazione di queste "cose delle scienze"sia la "conditio sine qua non" per avviare una nuova stagione di gestione delle risorse umane e dei processi di cambiamento. Il rifiuto a tener conto delle cose delle scienze non può che avere come risultato un innovativismo sterile che significa conservatorismo profondo ed egoistico.
Forse le cose stanno anche peggio: oggi persone e organizzazioni sembrano ingestibili. Ma sembrano tali solo perché si usa un modello di management (più in generale: di governo) che è del tutto anti-scientifico. Non siamo di fronte a persone sfaticate e organizzazioni lavative.Siamo alla mercé di classi dirigenti che, rifiutando le scienze naturali e umane, generano persone "sfaticate" e organizzazioni "lavative". Il lettore mi scusi la durezza: "absit injuria verbis". Nulla di personale, ma tutto di sociale, un sociale che siamo noi tutti.

L'obiettivo di servizio di questo documento è "raccontare" con la più grande forza possibile la tesi precedentemente enunciata e attivare nei lettori (nelle classi dirigenti, manageriali e oltre) desideri di approfondimento sul come e sul quanto le scienze naturali e umane possono permette di trasformare l'ecologia complessiva di crisi (il discorso che sto facendo non vale solo per risorse umane e organizzazione, ma per tutti i sistemi umani) che ci sta soffocando in una ecologia di sviluppo.

Iniziamo dalle tecnologie digitali (Big data, Algoritmi e Intelligenza Artificiale). Per comprenderle fino in fondo è necessario partire dalla matematica. E da un po'di storia.
Come è noto, non si può scrivere il numero "radice quadrata di due" in un computer digitale (specifico "digitale" perché cene sono anche di analogici): si può scrivere solo una sua approssimazione. Intendo dire: la radice quadrata di due è un numero (irrazionale) composto da una sequenza infinita di cifre senza nessuna periodicità. Quindi, per "comunicare" questo tipo di numero a un computer digitale è necessario decidere quando smettere di scrivere cifre. In sintesi: in un computer digitale non ci si mette la radice quadrata di due, ma l'interpretazione che di questo numero da' chi vuole usarlo. Più generalmente, quando si inserisce un insieme di dati in un computer digitale per rappresentare un "pezzo" di realtà (un sistema sociale, ad esempio), oltre a scegliere quali tipi di dati usare, occorre anche scegliere come scrivere questi dati.
Passiamo dai dati gli algoritmi.
Gli algoritmi rappresentano le leggi della realtà (del pezzo di realtà) che si vuole governare. Ora tutti sono convinti che la realtà sia "complessa". Certamente, almeno,non è lineare. Quindi,per descriverne il funzionamento,è necessario usare algoritmi non lineari. Bene, ma per far girare un algoritmo non lineare su quella sciocchissima macchina che è un computer digitale, non si può chefarne girare una sua approssimazione lineare. Butto un sasso nella piccionaia, senza approfondire: cioè senza chiedermi dove finiranno per andare a starnazzare i piccioni. E' certo che dobbiamo scegliere una linearizzazione di ogni algoritmo che lineare non sia. Ma, al di là dell'essere lineare o meno, da dove vengono gli algoritmi? Ecco il sasso buttato in piccionaia: per quanto riguarda le persone e i sistemi umani, anche gli algoritmi sono un'invenzione di chi guarda ...
Toccando un tema alla ribalta: chi elabora i nostri dati personali riesce a conoscere mille pettegolezzi su di noi ma quando cerca di scendere nel profondo, non trova noi, ma se stesso.

Arriviamo all'Intelligenza Artificiale (AI). Essa dovrebbe permetterci di costruire algoritmi di nuova generazione, intelligenti appunto. Ora è necessario ricordare che l'intelligenza artificiale non è nulla di nuovo: è un revival di un'ipotesi che si era avanzata negli ultimi anni '40. L'obiettivo di quei pionieri era costruire un General Problem Solver (GPS): mettete dentro un computer un problema e l'Intelligenza Artificiale (il GPS) ve lo risolve. Ovviamente nessuno è riuscito a costruire un GPS perché non è possibile farlo con un computer digitale. L'Intelligenza Artificiale funziona solo per "pezzi" particolari della realtà. Quelli per cui una descrizione digitale (dati espressi attraverso numeri razionali e leggi, cioè algoritmi, lineari) è sufficientemente esatta. L'intelligenza artificiale, insomma, è l'intelligenza delle cose semplici che si fa forza di una macchina (il computer digitale) che sa fare solo calcoli complicati in modo esatto e velocissimamente. L'Intelligenza Artificiale è utilissima ma non intelligente. Se la devo dire tutta,il suo punto di partenza è contemporaneamente il suo limite e la sua utilità: sa solo risolvere problemi formalmente ben definiti (tecnicamente si dice: calcolabili). Ma per comprendere e guidare verso un nuovo sviluppo persone e sistemi sociali, occorre saper leggere le storie del passato e scrivere storie per il futuro.

"Sommiamo" quanto detto fino ad ora: è proprio l'utilizzo del computer digitale che permette di evidenziare che l'oggettività non ha senso per quanto riguarda persone e sistemi umani. Quando si usano computer digitali per gestire risorse umane e organizzazioni si usa un moltiplicatore di giudizi soggettivi che la tecnologia spinge a considerare "oggettivi". Il discorso si potrebbe approfondire, sempre usando la matematica, per scoprire che le macchine di Turing (il computer digitale è una speciale macchina di Turing, realizzata con tecnologie a stato solido) hanno delle limitazioni intrinseche che non possono essere eliminate con l'aumento della velocità di calcolo.Chi sostiene il contrario opera, consciamente o inconsciamente, una grande mistificazione. Ma il discorso diverrebbe troppo tecnico... Mi sovviene, però, un dubbio: poiché le tecnicalità sono una parte essenziale di ogni conoscenza, come si fa a riflettere sulle tecnologie digitali se non si conosce la teoria che sta al loro fondamento? Forse solo conoscendo il loro fondamento teorico sene possono sfruttare le reali potenzialità che non sono certo banali ...

Lascio in sospeso il dubbio e passo alla fisica, fisica quantistica. Essa è di moda una volta tanto a piena ragione: rappresenta una vera rivoluzione nella visione del mondo ... ovviamente se la si affrontaseriamente e non si finisce per usarne una qualche versione romanzata. Allora ecco una soluzione al dubbio di prima: non è necessario che tutti studino le diverse teorie (prima parlavamo della teoria della macchina di Turing, ora della fisica quantistica). Occorre, però che tutti si accertino che chi ne parla e propone qualcosa che riguarda queste teorie se le sia studiate a fondo. Non parli per sentito dire o citando qualche divulgazione non sempre ben fatta.

La fisica quantistica allora. Presa seriamente.
Essa è fatta da due componenti: la meccanica quantistica "classica" e le teorie quantistiche dei campi (non ce n'è una sola).

La meccanica quantistica classica propone una teoria dell'osservatore molto diversa da quella che usiamo di solito. Nel senso che ci rivela che quando si cerca di osservare un sistema con una "intensità" tale per cui questo sistema si accorge di essere osservato, allora perde di senso il verbo osservare.
Infatti, chi misura (osserva, analizza ... tutti sinonimi) entra a far parte del fenomeno che intende misurare. Il misurato e il misuratore diventano una cosa sola realizzando, all'interno del sistema creato dalla misura, una delle loro potenzialità di identità.Quando la misura "finisce", misurato e misuratore riacquistano una propria identità autonoma, ma che, però, non è più quella precedente. La misura (quando è un relazionarsi con intensità) cambia le identità in modo imprevedibile. Anche le immagini reciproche che misurato e misuratore si formano l'uno dell'altro quando la loro relazione di misura si interrompe sono relazionali: dipendono dalle nuove relazioni che essi si costruiscono con altre osservatori e osservati.
Specificare ulteriormente quello che accade complicherebbe il discorso.Ma si possono facilmente trarre conclusioni importanti: ogni processo di analisi delle risorse umane o di un sistema organizzativo è solo l'analisi di un osservatore che, alla fin della fiera, misura la sua relazione con l'osservato che, sua volta, viene costruito dall'operazione del misurare.E questo rivela che le persone non vanno analizzate, ma mobilitate. Ma per favore non confondiamo il "mobilitare" con "esercitare leadership", altrimenti vi chiedo di dirmi cosa significa "esercitare leadership". Io ho trovato, così solo sfogliando libri per scrivere questo articolo, più di una decina di possibili risposte, una diversa dall'altra (Complex Systems Leadership Theory Isce Pubishing, 2007). Quando qualcuno parla di leadership, è doveroso chiedergli a che tipo di leadership si riferisce. E come si pone di fronte a tutte le altre proposte che scarta: le giudica sbagliate? Cerca di farne una sintesi? Accetta la definizione che gli da' un amico?

Una specifica teoria quantistica dei campi (l'elettrodinamica quantistica) parla (non solo, ma qui è questo che voglio sottolineare) dell'emergere di sistemi complessi. Ad esempio, di stati di memoria nel cervello. Ovviamente questi stati di memoria non sono accessibili. Anch'essi sono di tipo quantistico: se ci si relaziona con essi, non si scopre come sono fatti, ma se ne creano altri che certamente non possono essere previsti. Allora, quando sicerca di fornire conoscenze a qualcuno, non si va a scrivere queste conoscenze nel suo cervello. Ma si scatenano modalità di "registrazione" cheportano a formare stati di memoria che, come ho detto, non si possono preventivamente conoscere. Insomma, cercare di fornire conoscenze (a maggior ragione competenze) è come avviare un gioco che non si sa dove andrà a parare.
Esiste un'eccezione che riguarda le conoscenze ben definite, tipo procedure. Se una persona è d'accordoe accetta di impegnarsi (senza questa condizione non si verifica non accade nulla), può essere guidata lungo un percorso che riesce a fare generare uno stato di memoria che contiene quella procedura. Ma, anche qui, ci si riesce solo se si usa l'approccio cognitivista all'insegnamento. Ilproblema èparticolarmente evidente quando si parla di auto apprendimento ad esempio digitale (e-learning). Se non si usa un approccio cognitivista, che chiarisce quali sono le operazioni cognitive da compiere per "registrare" esattamente nel cervello una procedura,si ottiene una solenne perdita del tempo di chi fa programmi di auto apprendimento e di chi ne usufruisce.

Tornando agli stati di memoria,la teoria quantistica dei campi di cui stiamo discutendo (lo ricordo: l'elettrodinamica quantistica) ci rivela che ogni stato di memoria contiene una specifica immagine di sé e dell'ambiente esterno con cui questa specifica immagine si relaziona. Cioè si scopre che una conoscenza è sempre relazionale.Detto diversamente, ogni "conoscenza" (comprese le competenze) che possiede una persona è contestuale: ha senso solo in un certo contesto. E contiene anche un'immagine di quel contesto.

A confermare l'avvento dell'approccio contestual-relazionale vi sono anche la psicoanalisi e la sociologia che questa svolta "relazionale" la proclamano a gran voce.

Ma tutto questo cosa comporta?
Propongo solo qualche esempio.
Innanzitutto, comporta cheogni intervento formativo, ogni un processo di comunicazione del cambiamentoche strappi la persona dal suo contesto cognitivo, sociale, antropologico e lo metta in un contesto artificiale come quello formativo o quello di un "cantiere di cambiamento" (come si dice oggi),ottiene risultati del tutto imprevedibili. Tendenzialmente negativi, però, perché in un contesto artificiale si interpretano ruoli che poi ci si aspetta di poter replicare nel contesto reale. Ma questo è impossibile.

Dobbiamo anche parlardei progetti e, in particolare, del progetto per eccellenza di un'impresa: il Progetto Strategico. Ogni progetto emerge da un contesto specifico: il contesto chi l'ha redatto. E non si tratta solo di un contesto organizzativo specifico, ma del suo contesto complessivo: cognitivo, famigliare, sociale etc.Nel caso di staff di pianificazione strategica anche dal contesto dei "pari" (il gruppo di coloro che svolgono la stessa professione di redattori di progetti strategici) che è caratterizzato da un proprio sistema di risorse cognitive di riferimento. Se tutto questo è vero, allora ogni Progetto Strategico ha senso solo per coloro che l'hanno redatto. Per tutti gli altri (soprattutto per tutti coloro che lo devono solo realizzare, senza aver partecipato a progettarlo) acquista un senso imprevedibile. E questa imprevedibilità è drammatica se si pensa a grandi organizzazioni che si trovano "popolate" di mille letture dello stesso Piano Strategico.

Un Progetto Strategico può essere condiviso, ma banale. Per trovare la via per costruire un Progetto Strategico ricco ed emozionante ci aiuta la sociologia dell'immaginario.

Potrei continuare. Ad esempioricordando che solo in una macchina ogni pezzo ha una funzione specifica. Per quanto riguarda i pezzi fondamentali dei sistemi biologici (ad esempio: geni o neuroni) questa specificità non esiste. Tanto meno esiste nelle persone per cui è del tutto velleitario disegnare ruoli organizzativi e pensare che le persone si limitino a interpretare quei ruoli. Occorre, ad esempio, riconoscere che costruiscono inevitabilmente, gruppi sociali di cui i vertici aziendali non sanno assolutamente nulla.

Ma la smetto con l'esplorazione delle scienze. E arrivoa un dunque già prefigurato nelle parole introduttive di questo documento.

Il primo pezzo di questo dunque è apparentemente "innocuo". Il pensiero manageriale classico (tutto il pensiero di governo, fino alla democrazia rappresentativa) è semplicemente la trasposizione della visione meccanicistica del mondo (quella della fisica classica che serve a progettare e costruire macchine) al mondo dei sistemi umani. Ma non funziona perché i sistemi umani non sono sistemi classici.Allora occorrerebbe studiare le scienze e capire come si possa immaginare una nuova filosofia di management. Più in generale: di governo dei sistemi umani.

Ma chi ne ha voglia? Il farlo significa rimettere in discussione ruoli, reti di relazione che sono anche reti di protezione. Chi ce lo fa fare? Beh ce lo dovrebbe far fare il fatto che ruoli e reti di protezione si stanno sciogliendo come neve al sole, il fatto che per proteggere ruoli e reti di relazioni si finisce per distruggere quelle imprese che "forniscono" ruoli e relazioni...
Per superare le obiezioni conservative appena descritte, è necessario arrivare a un "dunque" esistenziale per dare più "emozionalità" alla mia tesi di fondo che ora riassumo nel modo seguente: per scoprire una nuova modalità di governo di persone e sistemi umani è necessario partire dalle scienze naturali e umane. Il farlo non è un "nice to have", ma è un imperativo categorico.

Consideriamo quello che è apparentemente un caso particolare del discorso della formazione e del cambiamento: la sicurezza sul lavoro.
Non è un caso particolare, è forse il discorso che più di altri rivela l'identità etica e l'impegno sociale delle imprese e delle persone che le guidano.
Oggi tutte le grandi imprese sono impegnate a impiegare le tecnologie e le procedure migliori per garantire una sicurezza sul lavoro che sempre di più diventa anche qualità, affidabilità e compliance. Questo sforzo, però, è solo necessario, ma non sufficiente. Infatti, le procedure non possono prevedere tutti i comportamenti che le persone devono mettere in atto per svolgere il loro lavoro. Vi è una parte rilevante di questi comportamenti che le persone devono scegliere autonomamente. E le loro scelte dipendono dal sistema di risorse cognitive di cui dispongono e dal tipo di contesto sociale e antropologico (il gruppo, tutta l'impresa) in cui lavorano.
Detto in sintesi, lo scegliere comportamenti sicuri non è una scelta calcolata (in termini di rischi/benefici), ma dipende da risorse cognitive e contesto.
L'organizzazione è fatta da una parte "hard" costituita da procedure e tecnologie. E da una parte soft, la definiremo organizzazione informale, che è fatta, appunto, da risorse cognitive e contesto.
Se questa organizzazione informale viene lasciata emergere senza guida, è praticamente impossibile che spontaneamente si finalizzi a sicurezza, qualità, compliance e affidabilità. Oggi purtroppo si cerca di gestirla con logiche profondamente antiscientifiche che non permettono di completare la sicurezza tecnologica e procedurale con una sicurezza cognitiva, sociale, antropologica.

Riflettendo sul caso della sicurezza sul lavoro arrivo al "dunque" esistenziale di cui dicevo.
Se per mantenere ruolo e relazioni si continua in pratiche gestionali antiscientifiche, non accade solo che si pregiudichino interessi economici, si attenta alla vita delle persone. E questo dovrebbe fermare tuttidavanti al baratro nel quale si rischia di far precipitare anche la nostra dignità umana.
Fatemi concludere con un triste aneddoto: ascoltare un importante CEO di un'importante impresa sostenere che il cambiamento lo si gestisce seminando terrore, strategia che è l'apoteosi della non scientificità, lascia esistenzialmente sgomenti.

 

 

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