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     n. 6 anno 2018

Comando e autonomia. Possono convivere?

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Perché c'è bisogno della leadership
La leadership è uno dei temi più dibattuti e controversi nell'ambito del management. La molteplicità di teorie, modelli e studi organizzativi che si sono susseguiti l'hanno interpretata secondo diverse chiavi di lettura e significati con un minimo comun denominatore che vede nella leadership "il processo che consente al leader di influenzare gli altri membri dell'organizzazione a perseguire volontariamente i traguardi organizzativi" (Kreitner e Kinicki, 2004). Il fil rouge fra le diverse definizioni e prospettive risiede proprio nel processo di influenza sociale, che va oltre il mero esercizio del potere e dell'autorità. Nonostante le inevitabili divergenze, c'è una considerazione che sembra mettere d'accordo tutti gli studiosi ed esperti del tema: la leadership è un'esigenza organizzativa. Non coincidendo in modo immediato le finalità delle persone e quelle dell'organizzazione - evidenziava già Chester Barnard nel 1938 riferendosi alle funzioni dell'executive - occorre che qualcuno provveda a guidare e assicurare comportamenti cooperativi, sottolineando così il valore di alcune tra le competenze di leadership oggi più richieste.

Che significato ha la leadership?
  • Leadership come personalità: quest'approccio si focalizza nel definire "che caratteristiche ha un leader, cosa lo caratterizza e contraddistingue dagli altri". Sottesa è l'idea che i leader abbiano delle caratteristiche innate. Secondo questa prospettiva, la personalità dei leader efficaci è caratterizzata da una serie di tratti distintivi quali, ad esempio l'intelligenza, la lungimiranza, la fiducia in se stessi, il livello di energia.
  • Leadership come comportamento: questo approccio è incentrato sul definire "ciò che un leader efficace fa". In questa seconda prospettiva, il focus è sull'analisi dei comportamenti caratteristici dell'esercizio della leadership e sull'individuazione di modelli di comportamento che mettono i leader in grado di influenzare in modo efficace gli altri. L'implicazione sottesa è che i comportamenti leaderistici possono essere emulati, appresi, allenati.

Della leadership c'è bisogno anche perché non tutti hanno un'attitudine adeguata a compiere "atti di volontà" capaci di costruire - secondo lo psicoterapeuta e filosofo Piero Ferrucci - quello spazio dove ciascuno può affermarsi e realizzare ciò che desidera. Anzi, la maggior parte degli individui sembra piuttosto nascondersi. Non ama farsi vedere, preferisce rimanere in ombra. Insomma, sono in molti a preferire l'idea che sia meglio che ci sia qualcuno che pensa a organizzare anche la loro vita. Un'imperfezione dell'umanità? Potrebbe; sta di fatto che da questa prospettiva il capo è - mutuiamo il pensiero dalla lettura del filosofo francese Emmanuel Mounier - "colui che prende su di sé il peso degli altri, il peso delle loro responsabilità incerte e deboli" avendo "la vocazione di volere e di decidere per altri". In altre parole chi guida (il leader, il capo) si muove all'interno di uno spazio di affermazione che potrà essere più o meno vasto a seconda della dimensione dei suoi atti di volontà che erodono, in qualche misura, quello liberato da chi rinuncia a essere quello che si è cedendolo ad altri.

Pigrizia e attitudine all'obbedienza: un territorio dove la leadership si espande. Proviamo a calare la riflessione nella prospettiva del people management. C'è qualche limite che i "capi" dovrebbero rispettare in questo schema di gioco o piuttosto il leader è tanto più efficace quanto riesce ad ampliare il territorio delle sue decisioni a scapito dell'autonomia degli altri? Come si concilierebbe questo comportamento con l'idea che il successo delle imprese nell'epoca dove tutto è interconnesso è garantito piuttosto da leadership aperte e distribuite lungo tutta la filiera produttiva? Non è forse questo il tempo in cui si cercano - attraverso coerenti modelli organizzativi e manageriali - responsabilità maggiormente diffuse e collocate nelle periferie dell'organizzazione che ora diventano il centro nevralgico del suo funzionamento? Non è questa l'epoca dove si acclamano gli esiti che deriverebbero da una più spinta autonomia delle persone (self-leading) considerata fattore critico di performance eccellenti e sostenibili?
Attorno a queste domande ruota, a ben vedere, uno dei dilemmi manageriali più complessi della nostra epoca. Si tratta infatti di rileggere la dinamica di due spinte opposte: da un lato, quella dell'umanità imperfetta evocata da Mounier che è propensa a restringersi entro lo spazio esiguo proprio della pigrizia, dall'altro, quella della "vocazione" di alcuni di caricarsi dell'incuria altrui, pronti così ad allargare il proprio spazio di influenza, potere e controllo. Si tratta evidentemente di una frontiera dai confini incerti e scivolosi che domanda: come evitare che il differenziale di potere in mano ai capi soffochi la volontà degli altri e il loro spazio di affermazione e autonomia che si vorrebbe invece incentivare? Come allenare i leader ad accogliere quello che il filosofo Luca Alici chiama il paradigma del "potere che cede per generare" per far sì che generi benessere e non sofferenza? E come allenare gli altri (i tendenzialmente "pigri") a cercare la giusta affermazione di se stessi per contribuire alla costruzione della società e alla generazione di valore?

Un intricato dilemma antropologico prima che manageriale
Si tratta di un intricato dilemma antropologico prima che manageriale che sfida la leadership e il people management a disegnare spazi nuovi dove poter, da una parte, fare avanzare con convinzione gli individui aiutandoli ad alleggerire il loro zaino dal peso di atteggiamenti pigri e passivi, dall'altra, fare indietreggiare leader e capi in modo da consentire l'affermazione di altri soggetti. Una costruzione per nulla facile perché toccando l'essenza misteriosa dell'umano, che è al tempo stesso possibilità di una generativa apertura ma anche possibilità di un rattrappimento improduttivo su se stesso, incrocia interessi e sensibilità diversi. Ma è una sfida che va accettata con la consapevolezza che si tratta di uno snodo centrale per creare valore anche nell'epoca della trasformazione digitale. Una sfida che può essere riassunta così: far fiorire l'umano nell'economia e nel lavoro, grazie a leader e capi che sanno vincere con sapienza la battaglia tra la spinta a occupare spazi e quella contraria di ritrarsi per lasciare affermare gli altri.

Suggerimenti bibliografici
Luca Alici, Patire e potere. Politica e questione antropologica, Morlacchi Editore, Perugia 2017, p. 214-215
Piero Ferrucci, La nuova volontà, Astrolabio, Roma 2014
Gabriele Gabrielli, Alessia Sammarra, "Su misura è meglio", L'Impresa, n.3, marzo 2018
Emmanuel Mounier, Trattato del carattere (Traité du caractère, Editions du Seuil, Paris, 1947), Edizioni Paoline, Roma, 1982, p. 592

Gabriele Gabrielli 
Executive Coach e Consulente, insegna HRM alla LUISS ed è Professor of Practice alla LUISS Business School in People management, HRM e Organisation, Organisational Behaviour. Founder e Presidente della Fondazione Lavoroperlapersona
 

 

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