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     n. 3 anno 2017

Diritto alla disconnessione

di Francesco Rotondi

Come al solito stiamo approcciando il tema del "diritto alla disconnessione" in modo sbagliato, come se fosse una rivendicazione nei confronti del "cattivo padrone" che ci vuole tutti connessi.

Sbagliato. E per comprendere il grave errore in cui una comunicazione di parte è incorsa è sufficiente che si consideri il dato di partenza, le regioni poste a fondamento e le azioni conseguenti poste in essere in Francia.

In Francia, a seguito di uno studio condotto sulle abitudini dei dipendenti, si è determinato che la costante connessione - non l'obbligo di connessione - è un'abitudine tra i lavoratori che utilizzano, anche per lavoro, strumenti di tecnologia mobile.

Non solo, tale abitudine influirebbe in modo negativo sia sotto il profilo della saluta psicologica, sia sotto il profilo della prestazione.

A questo punto, i francesi, avendo a mente un tema generale di salute ed un interesse dell'impresa alla tutela della salute del dipendente decidono di intervenire nel modo più intelligente e che, in loco, non è foriero di alcuna polemica e/o manifesto di vittoria sindacale.

Tant'è vero che la norma (art. 55 della Loi du Travail) demanda alle rappresentanze aziendali l'identificazione di regole in tal senso ma senza prevedere alcuna sanzione laddove ciò non avvenisse.

Un altro modo di gestire la vicenda e la materia del lavoro specie quando essa inevitabilmente si fonda con il "sociale" con esso intendendo quel sovrapporsi di agire difficilmente distinguibile e gestibile con margini di chiarezza.

A mio avviso, infatti, stiamo confondendo - solo noi - ciò che è regolamentato e regolamentabile per legge con ciò che è invece un percorso culturale ed educativo, e normalmente siamo abituati a celebrare una "norma" senza aver fatto il percorso necessario affinché essa possa essere socialmente compresa, accettata e quindi osservata.

Mi spiego.

Se il lavoratore ritiene di dover continuamente guardare il proprio cellulare anche dopo il termine dell'orario di lavoro, occorre capire la ragione; a livello giuridico è sufficiente sapere se a ciò egli è "obbligato".

Non vi è alcun bisogno di introdurre norme ulteriori, per carità! Non è obbligato.

Il farlo potrebbe invece essere una modalità di gestione della propria ansia o mille altri motivi che non è nostro compito indagare; faccio però un esempio personale, preferisco sapere cosa mi aspetta al mattino invece che scoprirlo il mattino stesso.

Ma non ci si può fermare a queste considerazioni, quando entriamo nel merito della "connessione" non possiamo far finta che i dipendenti utilizzino tutto il giorno il loro cellulare o altri strumenti solo per il lavoro! Perché dobbiamo essere sempre così ipocriti?

Occorre disciplinare anche tutte le "connessioni" alle quali siamo sottoposti, occorre determinare obblighi, comportamenti che prendano in considerazione tutti i disturbi da "connessione".

L'autista che chatta mentre guida è lavoro? Il whatsapp che arriva? Messenger? Facebook? Twitter? E sto solo elencando i più noti. Mettiamoci tutti gli eventuali siti, gruppi o altro ai quali siamo iscritti e che di certo non vengono gestiti solo "fuori dal lavoro".

Forse stiamo sbagliando approccio.

Forse quando si fanno troppe indagini, quando si commissionano troppi studi che servono a giustificare l'esistenza dell'istituto o ente al quale viene commissionato, si sbaglia.

La connessione in tal senso nasce dal fatto che in realtà questa non è una battaglia dei lavoratori e - ne sono certo - nemmeno dei sindacati.

Molto spesso il sindacato è anche vittima di un'attività mediatica non corrispondente alla realtà o comunque al più generale sentire; non vi è alcuna traccia in tal senso.

Le parti sociali a volte sono più avanti di tutti e più aderenti ad una realtà che, come in questo caso, è pervasa da un tacito scambio: non vi è invasione totale del datore di lavoro sull'utilizzo della connessione "personale" nel corso della prestazione e, evidentemente, il lavoratore ritiene non invasiva la verifica di email anche fuori orario.

Ora il tema vero è se, come in Francia, oltre le previsioni contrattuali l'impegno è più "sociale", ovvero quella ad organizzare specifici corsi per la gestione del tempo e del rapporto con la tecnologia; sì perché questa è la vera emergenza, l'incapacità del lavoratore / cittadino ad ogni livello ed espressione culturale di "gestire" la connessione.

Non è un motivo di lotta o contrapposizione, questo occorre comprenderlo perché diversamente ci attorcigliamo attorno ad un finto problema e dibattito; non è un tema giuridico o squisitamente giuridico, è un problema sociale e di generale cultura ed educazione: oggi di fronte ad un pc io non so se mio figlio studia, so che oggi è uno strumento di studio; parimenti non so se il mio dipendente utilizza lo strumento unicamente per lavoro. Ma questo è un cambiamento sociale, lavorativo e culturale del quale non possiamo apprezzare solo i lati ed aspetti positivi.

Per stemperare la negatività, gli abusi di entrambi, non occorre una "norma", ma cultura ed educazione.

Per gli appassionati del "precetto" osservo che il diritto a non fornire la prestazione al di fuori dall'orario non credo sia una novità che necessiti un intervento normativo. Se poi il tema è la salute pubblica, bene allora non è un tema da relazioni industriali, dovremmo cominciare dagli asili dove compaiono i primi cellulari e, anche se ormai gli AD sono sempre più giovani, mi sembra un po' presto!

avv. Francesco Rotondi, Founding Partner LabLaw 

 

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