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     n. 2 anno 2017

Perdonare nel lavoro. Perché i leader dovrebbero farlo?

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Chi non ha subito qualche torto nei contesti lavorativi? Farsi male e soffrire appartengono alla nostra esperienza umana, prima ancora che organizzativa. Senza relazioni non viviamo, ma i legami possono produrre anche ferite. Lo impariamo sin da piccoli. Come reagiamo però quando subiamo un'ingiustizia nel lavoro? Pensavamo di poter ricoprire il ruolo di direttore di business che ambivamo da lungo tempo, ma non è andata così. Ci abbiamo lavorato tanto, costruendo una vita di sacrifici segnata da successi, ottima reputazione e benessere economico. Abbiamo anteposto spesso gli interessi dell'azienda ai nostri e a quelli dei nostri cari, come testimoniano comportamenti quali il tirare fino a tardi in ufficio per chiudere una trattativa dietro un'altra, per raggiungere gli obiettivi sfidanti assegnati al ruolo importante ricoperto e per motivare il nostro team.

E invece no! L'azienda ha scelto diversamente. Chi sta in alto, del resto, dovrebbe sapere bene quanto sono numerose le variabili che influenzano una decisione così importante come quella di nominare il direttore della nuova divisione. Come reagiamo? Consideriamo quello che ci è accaduto una vera e propria ingiustizia che ci fa "ruminare" continuamente amplificando i sentimenti di risentimento, amarezza e voglia di vendetta verso il nostro capo, l'azienda, il consiglio di amministrazione, chi ci ha soffiato l'opportunità di carriera? Oppure siamo disposti - pur soffrendo per quanto occorso che ci ha fatto rimanere male - a comprendere l'insieme di fattori che possono aver influenzato la decisione presa dal nostro capo che non ci ha promosso? Nel primo caso, non vogliamo sentire ragioni. Coviamo solo il desiderio di vendetta e che le cose vadano male per chi ci ha tradito e per chi è al posto che pensavamo di meritare. Vediamo tutto negativo e le lenti che indossiamo ci indurranno a comportarci con durezza verso i colleghi e i nostri collaboratori. Cercheremo di intralciare la strada che pensavamo noi di dover percorrere, assumeremo iniziative finalizzate solo a raggiungere questo scopo e non a perseguire gli interessi dell'organizzazione. La nostra esistenza organizzativa si ridurrà a una vita di astio, rabbia, intolleranza e pesantezza. Le conseguenze possono essere molte e di diversa natura. Come quella che nessuno probabilmente vorrà più lavorare con noi, tutti penseranno che in fondo non eravamo così solidi da poter assumere responsabilità ancora più significative. Bene ha fatto l'azienda a dirottare la scelta su un altro candidato. Così al danno si aggiunge la beffa.
Nel secondo caso, invece, pur non dimenticando ciò che ci è accaduto desideriamo andare avanti, siamo disponibili a comprendere e cooperare, vogliamo perdonare sapendo che il perdono fa bene innanzi tutto a noi stessi perché ci toglie dalla gabbia del controllo che i sentimenti possono avere su noi stessi. Non vogliamo rinunciare al nostro percorso, alla soddisfazione che ci procura il lavoro e il condividere obiettivi, progetti, risultati con i nostri collaboratori.
A questo punto c'è una domanda che s'insinua prepotentemente nella nostra riflessione che è questa: ma i leader possono perdonare? Il perdono non è una virtù dei deboli? Che benefici avrebbe l'organizzazione da tale comportamento? Manfred Kets de Vries dedica un intero capitolo del suo libro Mindful Leadership Coaching (Edizioni FerrariSinibaldi, Milano, 2015) all'arte del perdono, che distingue i leader trasformativi che sono capaci, proprio perché non preoccupati dai dolori del passato, di creare sviluppo e futuro per le imprese. "Perdonare significa estirpare un pungiglione dalla memoria che altrimenti rischierebbe di avvelenare la nostra esistenza". Per questo non è una virtù dei deboli, tutt'altro, è una virtù che ci rende liberi. Il perdono porta apertura, futuro, nuove possibilità. Guarisce le ferite, un regalo che facciamo a noi stessi prima ancora che alle organizzazioni dove lavoriamo. Il perdono poi è una virtù che ha anche molte implicazioni nel campo dello human resource management. Per esempio, ci sono studi che mostrano come l'età cronologica sia correlata positivamente col perdono. Diventiamo più propensi a perdonare con il passare dell'età. Ancora, i leader che perdonano costruiranno ambienti di lavoro con una cultura del perdono che facilita l'apprendimento, perché incentiva creatività, sperimentazione, innovazione; nonchè l'attivazione di comportamenti di cittadinanza organizzativa come l'assunzione di comportamenti extra-role. Altri studi mostrano poi che le persone che hanno - nei loro tratti di personalità - un significativo grado di presenza dell'empatia saranno più propense a perdonare, così come a sviluppare comportamenti cooperativi e altruistici. Ci sono numerose evidenze, dunque, che suggeriscono a leader e manager di considerare con attenzione il perdono, annoverandolo tra i comportamenti più produttivi per l'impresa, perché "sebbene perdonare non cambi il passato, permette di costruire un nuovo futuro".

Gabriele Gabrielli, LUISS Guido Carli, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona@gabgab58 

 

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