hronline
     n. 12 anno 2016

Come educarsi alla preoccupazione empatica nell’epoca digitale?
Battaglie vecchie e nuove per sviluppare comportamenti di cura

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Non abbiamo tempo per riflettere. Lo stiamo scoprendo sulla nostra pelle quando dobbiamo reagire senza troppo pensarci su e prendere comunque decisioni. Dobbiamo agire subito, questo ci si chiede, senza che ci si possa concedere il lusso di fare troppe analisi. E' quello che sentiamo raccontare da molti nel lavoro. Le analisi magari ci sono ma la vita ora scorre sempre più freneticamente in un flusso che non può essere interrotto, pena la perdita dell'attimo, il non saper cogliere una nuova opportunità. Eppure disponiamo di una mole crescente di dati, sembra un paradosso di quest'epoca, e in effetti lo è. Sarebbe un peccato non usarli anche per prendere le scelte giuste. Per questo si sta dando la caccia a data scientist e big data analyst che ci potranno consentire di gestire, procurandoci un trade-off soddisfacente, questo nuovo paradosso. Ci manca dunque il tempo per riflettere. Scopriamo così nuove povertà e carenze che affliggono quest'epoca di grandi trasformazioni, come quella che riguarda l'attenzione. Il suo deficit ha implicazioni drammatiche sulla qualità delle relazioni umane - che sono vitali - e sul benessere. L'attenzione (che è anche tempo) diventa allora la nuova risorsa da catturare. L'ha capito l'"industria dell'attenzione" che studia sistemi, tecniche e narrative idonee a fornire strumenti e abilità per muoverci con successo nella nuova arena competitiva; quella dove si gioca con la capacità di catturare il tempo (l'attimo) di clienti, consumatori, cittadini. Anche quello dei collaboratori. La capacità di procurare l'attenzione degli altri, in questo scenario, finisce per diventare anche la nuova decisiva metrica con cui misurare la leadership efficace. E' una dura battaglia, resa ancor più difficile dalla tecnologia che erode la dotazione di attenzione di ciascuno. Tutti stiamo ormai facendo esperienza di cosa significa - scrive la giornalista statunitense Jacob Weisberg (L'empatia ai tempi dello smartphone, Internazionale, 1144 | 11 marzo 2016) - "passare da una società in cui la gente cammina per strada guardandosi intorno a una in cui cammina guardando un dispositivo". Infatti, siamo costantemente connessi a un tablet, a un ipad, a uno smartphone o a un pc; insomma a un qualche schermo che ci distoglie, ci sottrae tempo disturbando e interrompendo sempre più intensamente le connessioni vitali, ossia quelle che dovremmo coltivare con gli altri. E' un fenomeno che coinvolge tutti e ogni età, anche se le nuove generazioni - soprattutto i "nativi digitali" - sembrano più esposte per cui i ragazzi di oggi - scrive Daniel Goleman (Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici, Rizzoli, 2013) - "sono più sintonizzati sulle macchine e meno sulle persone di quanto non sia mai successo in passato". Ci si domanda allora come si possa godere degli indubbi vantaggi che ci offre la tecnologia senza che la stessa alimenti atteggiamenti e comportamenti antisociali minando quelle connessioni vitali che, sole, possono sviluppare i beni relazionali che qualificano l'umanità. Sono ormai numerose le scuole che organizzano team building per adolescenti o campi estivi che non consentono - facendo un po' storcere il naso ad alcuni genitori, mi raccontava un'amica che ha fatto di recente quest'esperienza - l'uso di telefonini. Forse è questa la sfida più impegnativa che devono affrontare le istituzioni educative in senso lato, dalle famiglie alla scuola, dalle università alle business school. Anche nelle imprese d'altro canto, c'è lo stesso problema: come catturare l'attenzione dei collaboratori per sviluppare legami tra persone e non solo transazioni? Come far sì che si coinvolgano anche emotivamente nella vita dell'impresa? Daniel Goleman e Peter Senge (The Triple Focus. A New Approach to Education, More Than Sound, 2014) sottolineano - ricorrendo agli esiti di corpose ricerche sperimentali - che la società deve investire proprio in questa direzione nel lungo periodo, sviluppando nei giovani pratiche di apprendimento delle abilità emotive e sociali. Rappresentano ormai skill strategiche e comprendono sia l'autoconsapevolezza, ossia la nostra capacità di riconoscere e comprendere ciò che proviamo e le sue ragioni; l'autocontrollo, ossia come gestire ciò che sentiamo; l'empatia, ovvero la capacità di cogliere i punti di vista degli altri, ciò che sentono e li animano. Queste capacità devono essere poi tutte armoniosamente combinate attraverso le social skills che ci guidano verso le scelte giuste. Goleman avverte però che ci sono diverse specie di empatia e che soltanto quella che chiama empathic concern è capace di azionare comportamenti di aiuto, supporto, solidarietà e cura verso gli altri. Altrimenti, per riprendere la riflessione da cui siamo partiti, la nostra attenzione rimarrà catturata dagli "schermi" e non dalle persone. Gli esiti di numerosi programmi educativi lasciano sperare che la tecnologia possa efficacemente supportare l'apprendimento di queste nuove capacità. Confidiamo che possa aiutare anche leader e manager a recuperare tempo per interessarsi alle persone e da dedicare alla costruzione di ambienti che producano preoccupazione empatica e la voglia di prendersi cura degli altri. Il rischio, altrimenti, è quello di alimentare storie, come quella vera della Panini dei primi anni novanta raccontata ora da Maurizio Boschini (Managermakia La battaglia dei manager, Pendragon, Bologna, 2016), dove l'impresa "non sapeva, perché non trovava il tempo per sapere; non capiva, perché diceva di non avere il tempo per capire..." che l'azienda - bene comune e fonte di benessere per molti - stava crollando per l'incapacità e l'assenza di comportamenti di cura di chi la guidava.

Gabriele Gabrielli
Docente Università LUISS Guido Carli
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona 

 

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