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     n. 4 anno 2016

La grande tentazione: “attacca il ciuccio dove vuole il padrone!”

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

E' difficile che passi giorno senza fare l'esperienza di ascoltare storie di management e di lavoro piene di rassegnazione che raccontano decisioni di abbandono della partita a fronte di situazioni ormai ingestibili, che ti invitano - secondo il detto popolare - ad attaccare il ciuccio dove vuole il padrone. Arrendersi e far finta di niente stanno diventando comportamenti sempre più diffusi negli ambienti di lavoro guidati da leadership senza volto e senza senso. In verità, il volto ce l'hanno, è quello segnato dal delirio d'onnipotenza che fa perdere il senso di realtà. A ben vedere, queste "leadership cattive" hanno anche un senso: quello che i burattinai del momento, di cui sono espressione e strumento, assegnano all'impresa o all'organizzazione riducendola ad aggrovigliata piattaforma di interessi. Un gomitolo di cui non si trova il capo. Resta solo da domandarti benevolmente: che posso farci? Executive e manager importanti, professionisti competenti e coscienziosi, anche giovani di talento raccontano di avere armi spuntate e voglia di arrendersi. Chiedono consigli. I più consapevoli s'interrogano come sia stato possibile arrivare a questo punto. I loro racconti descrivono la situazione di progressiva desertificazione del lavoro e del management che lo deve organizzare e indirizzare. Luoghi dove non scorre più acqua per far crescere esperienza, competenze, senso del bene comune, accountability; persone ormai inaridite e senza anima. La responsabilità del dover render conto a qualcuno viene polverizzata tra i denti taglienti dei meccanismi di governance, regole, policy e linee guida che con straordinaria efficacia riescono a vaporizzare, rendendolo paludoso, il campo delle responsabilità individuali. Tanto vale allora dire chi se ne importa. Il gioco così è riuscito. Tutti finiamo per fare cose in cui non crediamo o, peggio, crediamo proprio siano sbagliate e contrarie ai valori che vengono senza pudore proclamati da podi e rilanciati da social media. Spesso, le storie che ascolto ricorrono alla metafora del circo per descrivere gli ambienti in cui prendono forma, luoghi pieni di figuranti, giocolieri e comparse. Il flusso organizzativo reso simile a un palco pieno di gente che va e che viene senza una direzione che segnali, in qualche modo, la presenza di progetti fondati su una visione sostenibile. Sono storie che ascolto con dolore e rabbia. Mi avviliscono e mi tentano. Non risparmiano alcun settore: sono storie di donne e uomini impegnati in imprese e organizzazioni di tutte le industrie, anche del terzo settore, anche del mondo dell'educazione.
Qualche giorno fa il protagonista di una di queste storie mi confessava, preso dallo sconforto, di aver acquisito la consapevolezza di lavorare in un'organizzazione le cui fondamenta avevano ceduto. Tutto poggia sul ritmo incessante di lanci di accordi, di news senza valore, di eventi senza contenuto. Contorcendosi un po' su se stesso, mentre si camminava, ha aggiunto: "E sotto non c'è nulla, capisci?" Processi e competenze inesistenti o frammentati in modo tale da perdere ogni connotato. Persone impaurite e sbandate che non hanno riferimenti cui appoggiarsi. Ho chiesto allora al mio interlocutore: "Ma ci sarà pure qualcuno sopra, un consiglio di amministrazione, un comitato di saggi che controllano, no?" Il protagonista della storia, rabbuiato in volto e un po' irritato, mi guarda deluso replicando: "Allora non mi sono spiegato. Chi sta sopra non guarda questo, vola alto, non si sporca le mani, è interessato soltanto a poter dirigere il casting del prossimo evento". Prosegue dicendomi che ormai quella in cui lavora è una organizzazione che vive per assecondare la visione personalistica del leader del momento lasciato a briglie sciolte e senza alcun serio controllo. Anche questo presto passerà perché il gioco prevede che lasci libero il palcoscenico per i nuovi attrezzisti che, durante la notte, hanno già cominciato a preparare il nuovo show ingaggiando servi fedeli, naturalmente a tempo determinato. Cresce l'attesa che si schianti. Chi pagherà poi i danni del capitale sociale distrutto? A questo punto insisto impietosamente: "E le persone sotto che fanno?" Mi risponde, con tono compassionevole, che tra la gente che lavora c'è tanta tristezza. Anche se nei discorsi pubblici si racconta altro, la verità è che le persone cercano di sopravvivere senza motivazione e coinvolgimento. Ciascuno si aggrappa goffamente ai galleggianti più vicini e fa quello che gli si dice di fare, senza nemmeno più domandarsi che senso abbia. Stiamo diventando tutti corpi docili e addomesticati. Dopo una pausa, riprende a parlare con uno sguardo che chiede comprensione: "Anche io devo sopravvivere. Sto male, però, e dormo sempre meno. Perché non so più come guardare in faccia i miei collaboratori. Ma non ho alternativa".
E' questa la grande tentazione che prende tutti. Pensare che il nostro contributo, imprigionato nella "gabbia di ferro" di queste imprese e organizzazioni impersonali, direbbe Max Weber, non serva a niente, sia una goccia nel mare, possa fare anche peggio. La tentazione, subdolamente, ti suggerisce di lasciar perdere, di rinunciare a qualsiasi comportamento che - nella sua dirompente diversità - avrebbe il potere invece di illuminare quel "deficit di significato"(1) di cui soffrono le organizzazioni e le leadership. Il nostro agire, infatti, "che significa prendere un'iniziativa, incominciare, come indica la parola greca archein"(2), mette sempre in movimento qualcosa. Influenza gli altri che quell'esperienza ci propone come compagni e prossimi cui render conto. Non bisogna lasciarsi andare tra le braccia della tentazione che ci fa pensare che il nostro contributo sia indifferente. Non è vero. Arendt ci ricorda che le conseguenze di ogni atto sono sconfinate. Per questo è necessario continuare a testimoniare che il lavoro, qualunque esso sia, ha l'uomo come fine in sé e che non può essere strumentalizzato e mercificato. Con coraggio, consapevoli dei costi di cui ci si deve far carico. Vale sempre la pena ribellarsi, per quel che si può, alla minaccia imperante dell'omologazione e dell'indifferenza. Le ragioni per farlo come people manager e responsabili del lavoro altrui sono numerose e meritano di essere approfondite.

(1) Ulrich D., Ulrich W., Il perchè del lavoro, Franco Angeli, Milano, 2012 
(2) Arendt H., Lavoro, opera, azione, Ombre Corte, Verona, 1987

Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (presidenza@lavoroperlapersona.it) twitter@gabgab58 

 

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