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     n. 14 anno 2014

Un mondo di app-dipendenti o di app-attivi?

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Da qualche anno siamo entrati nell'epoca delle app. Potremmo ormai vivere senza? Non mi riferisco tanto ai "nativi digitali", alla generazione dei nati cioè negli ultimi venti anni e cresciuta in quest'ambiente tecnologico fatto di programmi software capaci di trovare qualunque soluzione ai nostri problemi: basta conoscerli e scaricarli. Parlo invece delle generazioni precedenti, quelle cresciute nel mondo dei PC e del Web. Anche per queste - anche per noi - è sempre più difficile vivere senza applicazioni. Potremmo rinunciare alla comodità di salire in macchina per andare a un appuntamento e attivare una delle tante Maps disponibili che ti guida - con voce rassicurante in mezzo al traffico - senza doverti preparare prima? Facendoti risparmiare il tempo che avresti speso per andare su Google, per esempio, visualizzare il percorso e magari stamparlo? Troppo dispendioso. Ormai percepiamo sempre più faticoso e inutile attivare persino il navigatore di serie dell'auto. Il mondo delle app sta diventando "di casa" anche per noi "immigrati digitali": nonni, genitori, fratelli. E' la nuova ubriacatura che ci offre il millennio in cui siamo da poco entrati. Un cambiamento travolgente che fa discutere. Molto. C'è chi pensa che sia una nuova grande minaccia da respingere con forza, chi invece la guarda solo come una straordinaria opportunità di sviluppo. Il tema sollecita ricerche, studi e approfondimenti soprattutto interdisciplinari, come quelli proposti da Howard Gardner e Katie Davis nel libro Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (Feltrinelli, 2014). Le questioni affrontate nel volume sono molteplici, al fondo c'è quella che possiamo riassumere in questi termini. Ci si domanda se l'abitudine di approcciare il mondo attraverso l'uso di applicazioni che ti portano subito all'obiettivo perseguito, vere e proprie "scorciatoie", non porti anche a considerare la vita una sorta di super-app da organizzare come una tastiera di pulsanti da scaricare. La scuola e l'educazione, il lavoro e le imprese, la società civile e le relazioni, la famiglia e gli affetti, perfino la politica potrebbero essere concepite e valutate in funzione della disponibilità di risposte pronte a soddisfare le nostre esigenze e desideri. Tra le conseguenze più rilevanti ci sarebbe l'influenza che tale mentalità può avere sull'attitudine delle persone a ricercare "con mezzi propri" la soluzione a problemi nuovi. Vivere in un mondo dove è disponibile la soluzione per ogni problema - ci si domanda - aiuta la creatività? Il dubbio, infatti, è che l'azione di ciascuno si restringa, costretta entro i confini e gli spazi consentiti da chi ha progettato l'applicazione. Per non parlare poi dell'influenza che l'abitudine di essere guidati dalle app può avere sulla costruzione di relazioni con gli altri. Le app incoraggiano le relazioni o piuttosto orientano verso comportamenti di isolamento? Le evidenze sono numerose, ma non univoche. Anche l'identità generazionale è plasmata da questa "nuova psicologia" che cambia radicalmente abitudini e atteggiamenti. Perché mai, per esempio, dovremmo investire tempo a riflettere e discutere sulle grandi questioni che da sempre interpellano l'uomo? Quelle su cui è difficile aprire un cassetto e trovarvi una risposta pronta e del tutto convincente, perché ti vengono incontro ammantate da poca nitidezza e tanto mistero. A cosa servirebbe questa speculazione? Che ce ne facciamo del pensiero critico se abbiamo l'idea che esiste da qualche parte l'app-giusta? Il rischio di diventare tutti - nativi e immigrati digitali - app-dipendenti c'è ed è forte. Si può essere però anche app-attivi, non lasciarsi cioè solo guidare dalla programmazione che qualcun altro ha fatto, pronti ad abbandonare il campo di ricerca se l'app non c'è o non si è trovata. Se ne possono creare di nuove ampliando l'offerta delle possibilità, guardando la vita come un percorso che non è segnato solo da rigide istruzioni ma dalla libertà e dalla coscienza critica. La tecnologia pone sempre di fronte a bivi. Può creare soggezione, dipendenza, schiavitù; al tempo stesso può però accelerare percorsi che facilitano diffusione di benessere e sviluppo delle nostre potenzialità. Può accrescere l'umanità, ma anche rendere disumane alcune applicazioni e pratiche. Per questo non può essere lasciata in mano ai soli "progettisti". Scaricare un'app piuttosto che un'altra ha implicazioni rilevanti sulla formazione e sull'educazione anche dei futuri cittadini. Più che perdere tempo allora a fare la conta sterile del partito dei favorevoli e di quello dei contrari al mondo che avanza - che nessuno potrà fermare - è meglio investire energie per educarci alle innovazioni e comprenderne la complessa e articolata portata. Vigilando sul diffondersi di abitudini e mentalità pronte ad assopirsi quando non trovano un'app disponibile; incoraggiando invece la progettazione di architetture aperte alla scoperta e all'incontro con ciò che non è predeterminato. Saremmo tutti più tranquilli, così, di non vedere la vita nelle sue molteplici dimensioni - anche nel lavoro - ridotta o soltanto immaginata come una super-app.

Gabriele Gabrielli, docente Università Luiss Guido Carli
twitter@gabgab58
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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