hronline
     n. 11 anno 2014

Far lavorare i collaboratori come “figli unici”?

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Un'intera generazione ha canticchiato le canzoni di Rino Gaetano. L'abbiamo fatto più volte, da soli o in compagnia, per le strade di campagna o in città, nella camera piena di fumo accompagnati dalla chitarra. Erano canzoni che amavamo perché ci consentivano di urlare la voglia di cambiare, di fare la nostra piccola battaglia contro l'alienazione della modernità. Mio fratello è figlio unico rappresenta un po' il manifesto di questo sentimento contro gli assurdi paradossi dell'esistere. Perché siamo nati per cooperare, per condividere, per vivere insieme. Il modello cui tendiamo e che ci viene proposto sin da piccoli, invece, spinge all'individualismo, al personale tornaconto, all'egoismo. Succede nella società, nelle piazze e nei condomini, nella scuola. Succede anche nel lavoro e dentro le imprese. Un fenomeno magari non voluto, cioè assecondato senza piena consapevolezza, ma ci sono politiche, strumenti e accorgimenti quotidiani che incentivano a coltivare strade solitarie, malgrado tutto. Sì, malgrado tutto. Perché l'economia e la società si stanno dotando invece di infrastrutture partecipative, di applicazioni fondate sulla ricerca di collaborazione durante la progettazione di prodotti e servizi, nell'implementazione della produzione e durante le fasi di erogazione, nel controllo dei risultati e benefici. Di esempi ce ne sono tanti. Le piattaforme ormai nascono così, hanno incorporato un DNA cooperativo che come persone portiamo con noi. Perché allora popolare anche i luoghi di lavoro di "figli unici"? Di persone che pensano che da soli - senza interdipendenza e la ricchezza dell'altro- si può essere più efficaci, più efficienti, più forti, più tutto? C'è un libro nuovo da scrivere - con la ricerca e con l'azione - nelle politiche e nelle pratiche HR. Un nuovo testo che - partendo dalla verità relazionale sull'uomo, evidenziata anche dalla scienza - riscriva i molti pregiudizi figli di questa visione miope che ci guidano nella selezione, quando valutiamo e mentre disegniamo i meccanismi che presidiano la carriera. Non farlo, non assumersi cioè questa responsabilità significherebbe gestire organizzazioni un po' schizofreniche, con una personalità non unitaria. Significherebbe sviluppare in due direzioni contraddittorie, una che investe in strutture collaborative e l'altra che scrive programmi con un linguaggio incompatibile, fuori standard, illeggibile e quindi inutilizzabile. Un linguaggio funzionale invece a sostenere una visione del mondo come lotta, luogo di competizione pura, spazio di resa dove si accetta la dittatura imposta dalle regole del mercato senza volto e senza umanità. Quella giungla asfaltata dove tutti vivono per sopravvivere contro gli altri, senza riconoscimento. Le scoperte scientifiche però stanno rendendo solide - per fortuna - le ragioni di una visione del mondo diversa, che fonda l'identità dell'uomo (anche sul lavoro) nelle relazioni. Gli esperimenti sui neuroni specchio, il linguaggio delle lacrime, gli automatismi protettivi verso il più debole dimostrano che gli esseri umani sono biologicamente sociali. Che anche le organizzazioni - se intese come progetto sociale e non come macchina per produrre solo profitto - sono create per soddisfare questo: costruire cioè luoghi accoglienti dove gli uomini siano in relazione tra loro. Bisogna stare attenti, allora. Perché nel mondo di oggi e nel lavoro si corre il rischio di essere e far diventare tutti figli unici, perdendo così la vera libertà che è quella dell'incontro con l'altro. Nonostante il dilagare di strumenti sociali. Di rete e canali. Commentiamo le foto di amici e parenti, sappiamo sempre dove sono, cosa fanno, cosa pensano, dove vivono, che musica ascoltano, se hanno o non hanno una determinata competenza professionale. Sappiamo quali sono le loro relazioni, qual è il loro stato d'animo. Poi però non alziamo lo sguardo verso chi è di fronte a noi e sul collega della postazione accanto a cui stiamo scrivendo una email che comunica silenziosa e rassegnata che si sta accettando la condizione di "figlio unico". Le infrastrutture tecnologiche - pensate per altro - diventano così vie di fuga per coltivare deresponsabilizzazione e percorsi individuali di crescita, senza l'altro. Per disintegrare anziché integrare. Sbaglia però chi pensa che l'innovazione tecnologica possa sostituire la forza della cultura dell'impresa, i suoi valori e la visione dei suoi leader. Conosco un imprenditore che incontra tutti i suoi collaboratori dedicando tempo alla relazione e ad incrociare i loro sguardi. Annota diligentemente i principali punti emersi durante la chiacchierata, occasione per ripercorrere - con l'aiuto di un volume appena uscito - la filosofia e la storia del progetto che li unisce. Di questo libro (2 km di futuro, un libro intervista di Maria Ludovica e Riccardo Varvelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 2014) ne fa dono ai suoi collaboratori-ospiti, su ciascuno scrive una dedica sul momento, un pensiero, un impegno che nasce da quell'incontro. Sulla scrivania ha alcuni fogli spillati che contengono il nome e cognome di ciascuno, la data dell'incontro, uno spazio per annotare le scoperte della relazione. Sono fogli su cui l'imprenditore evidenzia in giallo alcune cose, magari il segno di un particolare discorso fatto, di un'emozione vissuta, di una vocazione professionale diversa intuita o raccontata. Il seme di un nuovo progetto. Qualche giorno fa sono passato a trovare di sera, e senza preavviso, Enrico Loccioni ad Angeli di Rosora, nella Vallesina in festa per la primavera e piena di colori. Salendo le scale che portano al suo ufficio mi domandavo se l'avessi trovato e con il timore di capitare nel mezzo di una complicata riunione di business. Era invece seduto a incontrare i suoi collaboratori, uno a uno, qualche volta due insieme. Uno spazio importante della sua agenda. Me li presentava con semplicità; ne condivideva un tratto, una virtù, segnalando una loro competenza distintiva, esaltando la lungimiranza di un loro progetto o l'importanza del loro contributo. Mettendo tutto in rete, per condividere storie e passioni, benefici e nuovi traguardi della cooperazione. Per non far sentire i collaboratori figli unici, ma persone che s'incontrano accolte da un progetto d'impresa che richiede la reciprocità del farsi carico e di andare "oltre".

Gabriele Gabrielli, docente Università Luiss Guido Carli
twitter@gabgab58
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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