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     n. 16 anno 2014

Fare stretching organizzativo pianificando le successioni

di Gabriele Gabrielli

di Gabriele Gabrielli

Da sempre si discute sulla pianificazione delle successioni. E' utile davvero? Che ritorni può dare all'impresa disporre di tavole di successione? Vale davvero la pena investire risorse e tempo nell'individuare i potenziali sostituti dei collaboratori che ricoprono posizioni rilevanti assicurando in questo modo la continuità dell'azienda? I punti di vista non sono univoci, neanche gli esiti delle ricerche. Le critiche più rilevanti che si muovono a questa metodologia e ai suoi strumenti si fondano sul rilievo che pianificare le successioni in un'economia così turbolenta - che richiede alle organizzazioni di modificare continuamente strategie, piani e programmi di utilizzo del management - rischia di trasformarsi in un esercizio del tutto teorico e rimanere sulla carta. Insomma, un processo di management che produce tanti buoni propositi, più che decisioni da implementare. E per questo condannato più a rimanere nei manuali di management e organizzazione e gestione delle risorse umane che a tradursi in azioni. Alle critiche, però, si accompagnano anche buoni motivi che suggeriscono di fare questo esercizio. Le imprese sono organizzazioni complesse intrecciate in una fitta rete di nodi di leadership, veri e propri centri di gestione e sviluppo di relazioni, alleanze, motivazioni. Non è facile succedere a qualcuno o indossare abiti diversi. Una valutazione va comunque compiuta, si tratta di scegliere piuttosto come farla e decidere se allenare l'organizzazione a gestirla come un processo o come un evento. Qualche volta gli eventi sono traumatici, perché improvvisi o inaspettati. Le scelte possono produrre risonanza, ma anche disaffezione. Allora? A costruire un atteggiamento diffidente verso questa pratica concorrono sia componenti razionali, come la valutazione riguardo la poca utilità di uno strumento le cui raccomandazioni non sempre vengono attuate, sia componenti di natura diversa. Qualche volta, dietro la maschera della razionalità economica e organizzativa si nasconde dell'altro, per esempio un sentimento di timore. La paura di lasciare le redini del comando, di autorizzare implicitamente che si possa di fare a meno di noi, di perdere il posto. Aprire il flusso organizzativo che scaturisce da un processo di pianificazione delle successioni scalfirebbe di per sé leadership e posizioni. Quando a decidere se avviare una riflessione seria sulla successione è l'imprenditore la diffidenza può essere maggiore perché c'è un coinvolgimento più intenso. Quando l'allenamento alla pratica della pianificazione delle successioni è messa in pista dal management la diffidenza è minore, piuttosto può essere distorta la finalità perché adottata più o meno inconsapevolmente come leva per affermare il potere. Continuo a essere convinto che pianificare le successioni sia una buona pratica che porta vantaggi all'impresa, alla sua continuità, ai manager e collaboratori. Anche ai numerosi stakeholder coinvolti nella vita dell'organizzazione. La questione di fondo piuttosto è un'altra e ruota attorno a questa domanda: quale visione si ha del proprio ruolo? Quali sono le preoccupazioni principali che ci guidano quando ricopriamo ruoli di leadership? Se le lenti che indossiamo sono così spesse da non farci vedere più in là del nostro naso va da sè che ogni processo che ci costringe a mettere in discussione il nostro presente sarà percepito come inutile e anche ingiusto. Ma se la visione del nostro mandato allunga lo sguardo oltre di "noi", allora la diffidenza si riduce o viene meno. Se siamo consapevoli che la responsabilità di guidare ci chiede di vivere nei contesti sociali come se fossimo impegnati in una sorta di esercizio prolungato di stretching organizzativo oltre noi stessi, pianificare le successioni diventa allora una modalità costitutiva del fare impresa e management. Un modo per recuperare memoria organizzativa, valorizzare l'impegno nel presente e costruire legami con il futuro. Allungarsi dopo di noi, in questa prospettiva, significa scrivere storie durature, preoccupandosi di avviare processi e non di occupare spazi attorno ai quali costruire iniziative mediatiche e distrarre l'impresa dal suo progetto.

di Gabriele Gabrielli, docente Università Luiss Guido Carli
twitter@gabgab58
Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)

 

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