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     n. 14 anno 2012

La gestione degli affari può fare a meno di interrogarsi su quale visione dell'uomo si fonda?

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

Una "generazione esausta"? E' la domanda che pone un recente approfondimento sulle pagine de La Repubblica, riferendosi alla situazione dei trentenni e quarantenni che non sanno più come bilanciare: da un lato, la corsa a ostacoli allestita da una società e da modelli di gestione degli affari fondati sul miglioramento continuo della performance; dall'altro, gli affetti, la famiglia, la cura di sé e degli altri beni relazionali. Una generazione, secondo Michela Marzano, illusa di "poter conciliare l'inconciliabile".
La vita, d'altra parte, può apparire sempre più una faticosa occupazione che produce insoddisfazione, sensazione di non essere riusciti a far niente o poco, stress. Ci sentiamo impoveriti e svuotati da un canovaccio che conosciamo bene, perché sperimentiamo continuamente il rischio di venire travolti dall'onda degli obiettivi falsi promossi dalle pratiche sociali, culturali e organizzative. E' nella natura dell'uomo prestare il fianco al fascino dei molti idoli che ci costruiamo, come il successo a tutti i costi, l'eterna giovinezza, l'euforia del pensare che basti cliccare un semplice "I like" per poter far girare il mondo intorno a noi. Sono rischi, però, che diventano vere "trappole" se non cresce la consapevolezza di quello che si fa e che si rincorre. "Risvegliarsi", allora, per essere presenti a se stessi e al mondo. E' questo il beneficio che porta la mindfulness, una risorsa scarsa nell'epoca attuale e per questo sempre più necessaria. Consapevolezza che si fa urgente anche nei luoghi di lavoro, un bene irrinunciabile per leader e manager che guidano persone e organizzazioni. Sono almeno tre le direzioni verso cui questo risveglio potrebbe indirizzarsi.
Innanzi tutto quella di liberarci dal mito dell'individualismo che ci fa credere di potercela fare senza l'aiuto degli altri. In secondo luogo, quella di spingerci a domandare se è sensato costruire una società fondandola solo sul primato dei migliori. Infine, quella di aiutarci a rimeditare l'essenza della nostra natura umana illuminandola per quel che è, un dono che contiene in sé il limite, la finitezza, la fragilità e quindi anche la possibilità di sbagliare.
Quali implicazioni per la pratica e per il vivere nei luoghi organizzativi? Vediamone alcune. Per esempio, ci potremmo riappropriare di un atteggiamento sano e equilibrato nei riguardi della dimensione del locus of control; ci aiuterebbe a fare nostra la felice espressione del monaco trappista Thomas Merton, secondo cui "nessun uomo è un'isola". Non possiamo fare tutto da soli. Non possiamo - soprattutto nella società interconnessa - fare a meno dell'altro, forse nemmeno del capo rendendo più mitologiche che reali le bossless company. Un comportamento coerente, per le imprese e i suoi leader, sarebbe ricercare e promuovere con tenacia, allora, cooperazione e lavoro di team, anziché incentivare "giocate singole", rafforzando con convinzione sistemi (carriera, status, remunerazione, ecc.) che premino lo sviluppo di quella che Richard Sennet chiama "mentalità collaborativa".
Ci sarebbe un'altra importante implicazione. Quella dell'abbandono di una ideologia dell'up or out come linea guida per costruire la società in cui viviamo e come incentivo di carriera e misura del successo. Occorre sollecitare, piuttosto, qualche cosa di ben diverso, come è l'appassionata attenzione, cura e rispetto verso gli altri anche nei luoghi di lavoro, forme di solidarietà e capacità di valorizzare i talenti che ciascuno ha. Le imprese e le organizzazioni "responsabili" sono quelle che spingono l'acceleratore in questa direzione non elitaria e inclusiva. C'è una terza implicazione, poi, quella che eviterebbe di farci cadere "nella trappola della perfezione", per riprendere il pensiero della Marzano. Siamo vulnerabili e fragili. Si può sbagliare. Talvolta si eccelle, altre volte no e "nella vita non si deve sempre e solo cercare di essere i migliori". Conseguire risultati diversi nei molti ambiti in cui si è impegnati (nella vita personale, familiare, sociale, professionale, ecc.) è la norma e non lo "stigma" da nascondere e di cui vergognarsi, direbbe Martha Nussbaum.
Nasce da queste convinzioni, in fondo, l'essenza del diverso atteggiamento - con le numerose conseguenze pratiche sulla vita di chi lavora e anche su quella di chi è in cerca di una occupazione - che imprese e leader sviluppano quando considerano il lavoratore come risorsa o come persona. Il lavoratore come risorsa umana è a termine e si consuma. Il lavoratore in quanto persona no, ha un valore in sé e per sempre. Il primo fallisce, il secondo sbaglia e apprende. La risorsa umana, poi, dipende solo dalla combinazione e dal posto assegnatogli dal processo di combinazione di altri fattori, la persona invece è libera e responsabile. Non può essere sottoposta a regole di gestione che ne sviliscono la natura umana. Per questo è difficile, anzi impossibile, separare l'economia e la gestione degli affari dalla visione che si ha dell'uomo.

Presidente Fondazione Lavoroperlapersona - www.lavoroperlapersona.it

 

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