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     n. 1 anno 2012

La discussione sul lavoro non dimentichi quella sulla sua visione

di Gabriele Gabrielli, Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli, Università LUISS Guido Carli

L'anno ricomincia dal lavoro, da quello che c'è e che cambia continuamente ma anche da quello che manca e che va creato. I dati appena comunicati dall'Istat sulla disoccupazione di novembre, soprattutto quella giovanile, sono impietosi e accrescono il clima di apprensione sociale. Non c'è stato augurio, durante le festività natalizie e di capodanno, che non abbia messo al centro -seppur con diverse sfumature- il lavoro e i giovani. Un tratto comune da valorizzare rispetto alle molte differenze di approccio che si registrano sulla questione rischiando di non far fare passi avanti alla discussione. Sul lavoro ci sono molte aspettative, quelle di chi l'ha perso o di chi lo va cercando; ma ci sono anche grandi preoccupazioni, come quelle di chi vive con paura che la recessione ridimensioni le attività produttive o di quanti devono misurarsi con la nuova progettualità imposta dall'allontanarsi del tempo della pensione. Sul lavoro, poi, pesa anche lo scoramento dei giovani e meno giovani che non lo cercano più, perché non lo considerano una risorsa per la propria vita. Sono numerosi e crescono, insieme alla sfiducia che le tribolazioni sociali di questo periodo portano con sé. Non bisogna abbattersi, però, perché questi momenti dove tutto appare contraddittorio e buio possono diventare occasioni per trovare nuova energia e metterla al servizio di una prospettiva diversa da offrire alle nuove generazioni. A cominciare dal senso che vogliamo dare al lavoro e al posto che gli spetta nella società. Nel dibattito di questi giorni, infatti, incentrato sulla giusta esigenza di scrivere una riforma vera che tocchi l'accesso al lavoro e le regole del mercato, l'architettura delle tutele e della flessibilità, i livelli di sicurezza e di previdenza, si corre il rischio di dimenticare che il lavoro è per l'uomo, mezzo per ricercare il vero benessere che passa per uno sviluppo della persona nella sua integralità e nella relazione con gli altri. Un discorso astratto, si potrebbe obiettare, poco agganciato ai temi reali e alle questioni che sono sul tavolo, come per esempio la difesa dell'articolo 18 (che ormai più nessuno sa cosa voglia dire realmente), la semplificazione delle modalità di accesso al lavoro, le tutele da prevedere per i periodi di transizione da un lavoro a un altro e così via. Questioni fondamentali, non c'è dubbio. E' positivo che anche l'agenda del Governo e delle forze politiche assegni attenzione prioritaria alla riforma del lavoro. Ma a forza di discutere di tecniche normative va a finire che non ci si domandi più qual è il ruolo che vogliamo assegnare al lavoro nel nostro vivere. Non è una domanda di minor conto rispetto alle altre questioni. Tutt'altro. A non affrontarla si corrono molti rischi. Un esempio per tutti. Ci pare fuorviante, se collocata in questa luce, ricondurre la necessità di cambiare le regole del gioco (compresa la tutela prevista dall'art.18 dello Statuto dei lavoratori) al motivo che oggi questa norma andrebbe a svantaggio degli stessi lavoratori come consumatori. Nell'epoca industriale c'era "un contrasto strutturale tra produttori e consumatori" e quindi i lavoratori (i primi) avevano come leva per far valere i propri diritti quella di danneggiare i secondi (cioè i capitalisti, la borghesia, i benestanti) rendendo loro più difficile il godimento dei beni che producevano. Ma oggi che senso ha questo? Che significato avrebbe questa strategia in un'epoca in cui "gli operai e gli impiegati consumano un paniere di beni molto simili a quelli che loro stessi producono, e che è più o meno lo stesso paniere consumato dalla borghesia"? Sono alcune delle argomentazioni proposte da due autorevoli studiosi per sostenere la modifica dell'attuale impalcatura della tutela fornita ai lavoratori in caso di licenziamento (Ichino A., Moretti E., Il lavoro e i lavori, l'obbligo di cambiare, Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2011). Non è il merito della questione affrontata che qui ci interessa discutere, quanto la filosofia del lavoro che sembrerebbe essere posta a fondamento dell'analisi. Ossia una visione, più o meno consapevole, che si possa ridurre il lavoratore a consumatore e la funzione del lavoro (la sua ragion d'essere, potremmo dire) a quella di far accedere le persone alla disponibilità -sempre più ampia e diffusa- di beni e servizi. Il lavoro viene così strumentalizzato per uno scopo sempre "più esterno", dimenticando che lo stesso è prima di tutto espressione della persona e delle sue potenzialità. Ma è questa la visione del lavoro che vogliamo perseguire e su cui vogliamo immaginare il futuro? Quella che lo fa diventare strumento di consumo? Su questa direzione perde ogni rilievo e forza, nella costruzione dei modelli sociali, la "motivazione intrinseca" del lavoro (i suoi contenuti, le sue caratteristiche di qualità ecc.) a vantaggio dei soli riconoscimenti estrinseci e materiali. Le conseguenze di questa deriva le paghiamo tutti i giorni, per esempio, quando lamentiamo di incontrare persone che non amano il proprio mestiere e da cui ci si sente trattati come un problema o una minaccia. Considerare il lavoro strumento per allargare il proprio paniere di consumi migliorando così la propria posizione di cittadino-lavoratore-consumatore significa anche affermare che il lavoro non ha più alcun valore educativo che significa -secondo Benedetto XVI nel Messaggio per la 45^ Giornata della Pace)-condurre "verso una pienezza che fa crescere la persona". Sappiamo però che il benessere (e la felicità) non sono soltanto, o prevalentemente, correlati a queste dimensioni estrinseche. C'è dell'altro. Inoltre, occorre prestare anche attenzione a non sottolineare troppo questa funzionalizzazione del lavoro a mezzo per accedere con più frequenza e facilità al mercato dei beni in un periodo come questo dove il timore più grande è proprio quello della disoccupazione. Luigino Bruni scrive con molta efficacia che "... parlare di consumo, invitare a consumare di più, è uno slogan che frustra e offende chi è disoccupato o rischia di diventarlo presto" (Bruni L., L'abbecedario dell'economia civile, Communitas, maggio 2009). Sarebbe davvero un peccato perdere questo momento di crescente convergenza sulla necessità di riformare il lavoro e le sue regole senza farlo diventare anche una occasione preziosa per riflettere sulla sua visione e sul fatto che prima del lavoro viene la persona e l'idea che una società ha di essa.

Presidente Fondazione Lavoroperlapersona www.lavoroperlapersona.it

 

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