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     n. 9 anno 2011

Interessi e impegni comuni verso il lavoro

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

"Oggi si crede che tutto debba esser fatto da specialisti mentre forse la felicità consiste nel far lavorare le proprie mani...", scriveva Ennio Flaiano in uno dei suoi racconti. C'è sempre meno gente, però, almeno tra gli italiani, che è occupata in lavori manuali. Negli ultimi cinque anni, mentre gli stranieri sono cresciuti dell'84% secondo il Censis, gli italiani impiegati in tali attività sono diminuiti di quasi 850.000 unità. Anche se il lavoro tecnico-manuale continua "a rappresentare uno dei pilastri del nostro mercato del lavoro, interessando ben il 36,6% degli occupati del Paese". La questione è ritornata di recente, e in modo prepotente, al centro del dibattito sul lavoro, su quello che c'è o ci sarebbe e su quello che effettivamente manca. Un tema, quello del lavoro che abbiamo festeggiato il 1 maggio, considerato da tutti di fondamentale valore per il benessere della persona, delle famiglie e per lo sviluppo di un'economia prigioniera di una crescita debole e con il fiato corto. Sarebbe lecito aspettarsi, allora, valutazioni e comportamenti lineari e univoci. Ma non è questa la situazione, perché se c'è oggi una questione controversa e ricca di paradossi questa è proprio il lavoro e le sue analisi. Il dibattito che ha preceduto questo 1 maggio ne è una prova importante. A riaccenderlo è bastato il commento del Ministro Tremonti sulla occupazione degli immigrati nel nostro Paese e sul suo rapporto con la disoccupazione giovanile. Il Ministro non crede che "ci sia disoccupazione giovanile" tra gli oltre 4 milioni di immigrati "di cui moltissimi giovani, che lavorano da mattina a sera e a volte anche di notte...". E questo può spiegare, almeno in parte, i perché della disoccupazione giovanile nel Paese, in quanto il lavoro che si offre è accettato solo dagli immigrati, mentre "non c'è richiesta di questo lavoro da parte di altri". Insomma, il lavoro ci sarebbe pure, ma non c'è corrispondenza tra la sua domanda e l'offerta. Mancano operai e tecnici specializzati, artigiani, sarti, muratori, elettricisti e idraulici, tutti mestieri fondati sulla manualità, ma cresce la disoccupazione. Il rapporto 2010 Excelsior-Unioncamere conferma questo mismatch tra i fabbisogni delle imprese e del Paese e quanto il mercato del lavoro riesce a produrre in termini di offerta. La questione propone molti paradossi. A fare il "lavoro che c'è" sembrano aspirare soltanto gli immigrati, ma alcuni pensano che siano proprio loro a minacciare il lavoro dei giovani e la sicurezza sociale. Il ministro Maroni, per esempio, sostiene che molti immigrati non lavorano, quando invece sarebbero pienamente occupati a fare quello che gli "altri" non vogliono fare. Ma poi, siamo seri, potremmo fare a meno degli immigrati e dei loro contributi sociali? Potremmo pensare di sostenere la spesa previdenziale dell'Inps per pagare le pensioni nel Paese nei prossimi anni senza il loro apporto? No, perché abbiamo bisogno di occupazione aggiuntiva di immigrati per i prossimi decenni. Fare a meno dei flussi immigratori sarebbe come togliere ossigeno da una stanza piena di gente. Cambiamo bersaglio, allora, e puntiamo il dito contro il sistema formativo. Le scuole e i loro programmi sono inadeguati a cogliere le nuove esigenze, così come non funzionano le politiche e gli strumenti che governano il mercato del lavoro. Secondo alcuni, infatti, è la struttura di accesso al lavoro che andrebbe riformata perché capace di produrre solo precariato e sfiducia. Per questo è necessario -lo hanno sostenuto di recente Pietro Ichino, Luca Cordero di Montezemolo e Nicola Rossi- prevedere un contratto unico a tutele crescenti e assunzioni a tempo indeterminato. Ma altri, come il Ministro Sacconi e il giurista Michele Tiraboschi, pensano invece che la via giusta sia rafforzare il contratto di apprendistato e le tipologie previste dal suo disegno di riforma. Il paradosso più sconcertante, però, è quello di cui si è reso protagonista l'onorevole Remigio Ceroni. Mentre si discute intorno alle complesse interrelazioni delle variabili che aggrovigliano le dinamiche del lavoro e che lasciano ben vedere come sia necessaria una strategia di governo e un approccio non ideologico al lavoro, l'esponente del PdL con ingenua spensieratezza o spregiudicata consapevolezza gioca a sparigliare le carte e cosa fa? Propone di cancellare il principio fondativo dell'articolo 1 della Costituzione secondo cui "l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". Qualche giorno prima della solennità del 1 maggio può apparire davvero una provocazione. Non c'era bisogno e non ne sentivamo la mancanza in un Paese che non riusce a trovare un impegno comune su nessun versante, nemmeno sul lavoro. Ma ritorniamo al difficile rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Certamente potrebbe essere di aiuto un diverso orientamento scolastico che semini e raccolga nuove e più numerose "vocazioni" -come le chiama Dario Di Vico [Corriere della Sera, 19 aprile] per quei mestieri tecnici e artigianali di cui il made in Italy ha tanto bisogno. Sarebbero molte le iniziative da intraprendere in questa direzione. Ma occorre farlo in modo organico, perché il mercato del lavoro e quello delle competenze necessarie allo sviluppo dell'economia e del benessere sono questioni complesse. Frammentare risposte ha poco senso. Quello che conta è un disegno unitario e una strategia su cui fondare una seria alleanza per il lavoro. A cominciare dalla pietra miliare su cui fondare l'impegno di tutti, ossia la sfida educativa. A nulla servirebbero, infatti, gli interventi in discussione se non fossero alimentati da una cultura del lavoro che valorizzi in modo appropriato il suo significato e tutte le sue possibili espressioni. In cosa potrebbero aiutare le riforme, se non si educano i più piccoli e poi i giovani a considerare il lavoro quale strumento di realizzazione di se stessi e come mezzo di sviluppo sociale? Scoprire e assecondare i talenti di ciascuno nel lavoro è la sfida educativa che hanno le famiglie, le scuole, le istituzioni e le imprese. E' un compito culturale e educativo arduo, perché il lavoro ha perso questo profondo senso di realizzazione personale e di servizio per gli altri. Non crediamo nel mito del lavoro prometeico che assorbe in sé l'ambito complessivo dell'essere umano. Sappiamo bene che sul piano antropologico l'uomo va oltre il lavoro perché non può essere ridotto solo a homo laborans. Ma crediamo altresì che occorra riappropriarsi del valore del lavoro nella sua dimensione di bene di cittadinanza, lasciando in secondo piano l'idea che sia l'economia il "regolatore supremo", perché si tratta di una filosofia che "porta al centro il capitale e la sua valorizzazione rispetto al lavoro, la concorrenza rispetto alla collaborazione, il successo rispetto alla solidarietà" [Massimo Mucchetti, Corriere della Sera, 21 aprile]. Il lavoro -quello manuale, tecnico, artigianale, creativo e artistico, imprenditoriale e manageriale- è un diritto su cui si fonda la nostra concezione della società e della democrazia. Il suo senso va dunque recuperato alle radici. Ha ragione Paolo Franchi nell'osservare [Corriere della Sera, 23 aprile] che per superare la crisi occorre rivalutare il lavoro e pensare a "come restituirgli prospettive, senso, dignità e considerazione sociale...". Valorizzare e promuovere il lavoro come espressione della "persona" e come strumento per realizzare il progetto di sviluppo che ciascun individuo ha "insieme agli altri"; è questa la sfida educativa su cui poggiare riforme e azioni di governo, iniziative delle famiglie e dei sistemi scolastici ed educativi, progetti delle istituzioni locali e della più ampia comunità civile. E' un terreno su cui incentivare la collaborazione più ampia e rendere concreta la sussidiarietà e i suoi principi. Si tratta di rispondere con la forza convincente di comportamenti coerenti alla domanda posta con autorevole schiettezza da Giorgio Napolitano alle forze politiche e sociali: "... è inevitabile l'attuale grado di conflittualità, è impossibile l'individuazione di interessi e impegni comuni?". La ricerca di risposte concrete per valorizzare il lavoro, quello che c'è e quello che viene rifiutato, è il terreno su cui attivare da subito quel "nuovo clima di coesione, sia politica sia sociale" richiesta con forza dal Presidente della Repubblica. Sarebbe la via più autentica per festeggiare, senza "ipocrisia istituzionale", il lavoro e i lavoratori.

 

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