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     n. 21 anno 2011

Diversità, lavoro e voglia di partecipazione

di Gabriele Gabrielli – Docente Università LUISS Guido Carli

di Gabriele Gabrielli – Docente Università LUISS Guido Carli

C'è molta inquietudine dentro di noi, nella società e nelle organizzazioni che abitiamo. In gran parte nasce dall'aumentata esposizione alla diversità. E' una molteplicità che sta colorando la nostra vita e le sue numerose dimensioni diventando quotidianità; è una dimensione però verso cui non siamo ancora abituati. Questo disagio nasce da molto lontano. Si è formato, infatti, goccia dopo goccia, attraverso un processo di progressiva esaltazione della individualità e dei talenti esclusivi che ha incentivato atteggiamenti di rattrappimento su noi stessi, distogliendoci dagli altri, da chi incontriamo per strada mentre corriamo o camminiamo per mantenerci in forma, dal vicino del pianerottolo che non conosciamo. Nel tempo abbiamo anche elaborato opportune metriche per misurare questo nostro riavvolgerci, fatte di misure del successo oggettivo, del possesso di capacità di dominio e controllo, del tornaconto. Anche nel lavoro è accaduto questo. Come poteva essere diversamente? Il lavoro, da espressione della creatività dell'uomo, del suo pensiero e della sua opera originale, intellettuale o manuale non fa differenza, abbiamo assistito e partecipato a una operazione su larga scala incentrata sul progressivo svuotamento del suo contenuto. Era colorato e multiforme, ricco di senso e legami; lo abbiamo fatto diventare, a poco a poco, soprattutto strumento di produzione per consumare supportando in questo modo l'idea di una identità riduttiva e falsa dell'uomo, rispetto alla sua grandezza. Il lavoro, che doveva essere un modo per realizzare la diversità di ciascuno e le vocazioni personali, ha così lasciato il campo a una concezione che lo ha reso fattore abilitante della nuova cittadinanza cosmopolita e globale. Quella fondata sulla capacità di spesa. Come il PIL misura la posizione in classifica delle nazioni più ricche, anche le persone sono guardate con questa lente deformante perché ciascuno di noi può esibire un proprio PIL. La capacità di spesa e il suo potenziale diventano così fattori attrattivi di investimenti, di attenzione e cura del marketing e della comunicazione. Sta succedendo con gli anziani, sta succedendo con i paesi emergenti, in parte anche con gli immigrati, quelli che lavorano, che producono, che consumano. Si è disposti a fronte di questa caratteristica, infatti, a costruire anche modelli multiculturali, intesi come semplice convivenza e tolleranza di diverse culture in uno stesso territorio. Ma non è troppo poco forse per questa epoca? Tollerare soltanto le culture e il diverso non aiuta molto perché non toglie spazio ai fondamentalismi, agli "eccessi di culture", alle ideologie. Bisognerebbe andare oltre e costruire luoghi sociali e organizzativi che sollecitino e lascino spazio alla narrazione delle persone, alle loro storie, ai loro progetti. Da più parti sembrano arrivare segnali incoraggianti in questo senso che lasciano intravvedere una voglia di maggiore partecipazione, malgrado i tempi e l'affanno. Non bisogna disincentivarla o lasciarla ai margini. Occorre invece accompagnarla e farla vivere pienamente nella società, nella politica, nelle imprese, nelle scuole, nelle piazze. Rappresenta una opportunità di crescita civile e sociale. Una porta di ingresso per un futuro più accogliente. E' una occasione per far conoscere e dialogare punti di vista diversi, esperienze non raccontate, motivazioni assopite dalla desertificazione creata dal guardare solo al proprio orticello.
Le trasformazioni che viviamo convergono su un aspetto che diventa centrale anche per la gestione di imprese e organizzazioni: quello del fabbisogno crescente di cultura e competenze per gestire e includere la diversità. E' una dimensione critica per le imprese e per la generazione di valore. Certamente è la più impegnativa e ineludibile in questo inizio di millennio. Anche per la politica. Si tratta di riscrivere il tessuto dei legami individuo-organizzazione-società, lasciando spazio a una articolazione più ampia della soggettività e delle storie personali. Del resto, scriveva Edgar Morin, "ogni aumento di complessità si traduce in un aumento di varietà". Fondamentalmente, si tratta di un processo di discussione critica che revoca in dubbio la correttezza e la sostenibilità dell'utilitarismo come piano d'appoggio del pensiero moderno.

 

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