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     n. 12 anno 2010

Coaching: chi paga e chi ci guadagna?

di Marina Capizzi, partner GSO

Talvolta ci chiediamo perché, parlando di coaching in azienda, ci si concentri prevalentemente sul rapporto coach/coachee, sul livello di fiducia che si instaura e sulle dinamiche virtuose che, auspicabilmente, dovrebbero generarsi fra loro. Ci si interroga molto anche sulle caratteristiche che il coach deve possedere e, da molte parti, l'intelligenza emotiva viene indicata come la risorsa privilegiata da mettere in campo in questo percorso.

Certamente la coppia coach/coachee deve "funzionare", ma bisogna intendersi su cosa questo significhi. Quali sono gli obiettivi da porre all'inizio di un percorso di coaching e quali i risultati che è realistico aspettarsi da questo investimento? Inoltre, se il coaching è un investimento, bisognerebbe avvertire la necessità di chiarire che tipo di ritorno possa dare.

Gli obiettivi del coaching e i risultati che esso può generare, infatti, sono materia per nulla scontata.

Vorremo provare a dare un contributo su questo tema partendo da due domande: chi paga i percorsi di coaching in azienda? Chi ci guadagna quando un coaching funziona?

La risposta alla prima domanda è facile. In base alla nostra esperienza, i coaching sono sempre pagati dall'azienda. Di solito da HR, talvolta dalla Direzione di appartenenza del coachee.

Anche la risposta alla seconda domanda è piuttosto chiara: se il percorso di coaching è stato efficace sono sempre più di quattro i "soggetti" che hanno un beneficio da questo investimento. Ci guadagna sicuramente il coachee, il protagonista del percorso di coaching, perché sarà più efficace nel gestire il suo ruolo: i suoi sforzi, il suo coraggio e la sua determinazione avranno migliorato qualche gap di competenza e, dunque, otterrà più risultati facendo meno fatica; oppure avrà accelerato il suo inserimento in un nuovo ruolo più complesso; o, ancora, avrà chiarito meglio le sue motivazioni. Ci guadagnano, a seconda dei percorsi, il capo diretto e altri interlocutori di ruolo (i collaboratori, i colleghi, i clienti) perché riceveranno contributi a maggior valore aggiunto laddove, invece, la persona era prima meno incisiva. Ci guadagna HR per aver fatto un investimento mirato sulla crescita di una risorsa aziendale, fornendo un supporto specifico. Naturalmente ci guadagna anche il coach perché il suo contributo professionale sarà riconosciuto.

Appare dunque chiaro che il coaching non riguarda mai solo la coppia coach/coachee perché, se è pur vero che uno solo paga, l'investimento viene fatto affinché un intero sistema ne abbia beneficio. Spetterà poi al coachee e al suo coach (o al team e al suo coach, nel caso di i team coaching) portare a buon fine questo investimento attraverso il lavoro quotidiano (del coachee) e durante gli incontri (di coach e coachee). E qui possono nascere vicende professionali appassionanti perché generative di nuove efficacie: e ciò che prima appariva difficile, quasi impossibile, può entrare via via nel possibile quotidiano...

Ma, come ogni investimento che si rispetti, dobbiamo valutarne il ritorno. E questo richiede che all'inizio del percorso di coaching siano individuati obiettivi chiari e realisticamente raggiungibili con questa modalità di intervento.

Da un coaching si può ottenere moltissimo, se a monte l'obiettivo è ben posizionato e, soprattutto, se questo obiettivo è tradotto in nuovi comportamenti concreti che il coachee dovrà imparare ad agire. A che cosa servono, infatti, gli investimenti di Risorse Umane se non vengono tradotti nell'approccio mentale e nelle azioni quotidiane delle persone?

È utile quindi inquadrare gli obiettivi del coaching in termini di sostituzione di comportamenti professionali inefficaci (individuali o di team) con altri efficaci. E quando questa sostituzione riesce, lo sappiamo bene, è perché il coachee ha modificato anche il proprio approccio mentale... E' tanto o poco? Di sicuro è molto di più di quello che si ottiene partendo animati dalle migliori intenzioni, dall'empatia e dalla fiducia, ma lasciando vaga la meta (come quando ci si accontenta di enunciare che il coaching servirà a "esprimere il potenziale" o a "motivare" o allo "sviluppo personale" del coachee).

È dunque importante che il "patto di coaching" sia innanzitutto un patto sui risultati da conseguire (prima ancora che un patto di fiducia, la quale avrà ogni ragion d'essere se il percorso porterà rapidamente dei benefici). Ed è utile che questo "cruscotto" venga costruito attraverso una diagnosi condivisa anche con il capo diretto e HR, che il coach faciliterà supportandola con adeguati strumenti. Così tutti i players sapranno per che cosa si sta lavorando e ciascuno, dal proprio punto di vista, saprà che cosa osservare per capire se il percorso funziona o no. Spesso un valore aggiunto è dato dal ruolo attivo del capo che ha la possibilità di dare feed-back e di coinvolgere il coachee in attività coerenti. Può essere che qualche capo, all'inizio, consideri questo coinvolgimento "un carico in più" ma, aiutato con strumenti adeguati, può toccare con mano che per aiutare il collaboratore non serve tanto "dedicare tempo" quanto avere la giusta focalizzazione.

In conclusione, ci sembra atto di mera intelligenza economica assumere che il fine del coaching sia aiutare una persona o un team ad essere più efficace affinché - oltre alla persona o al team - ne benefici il sistema organizzativo nel quale essi sono inseriti. Fuori da questa logica economica, aziendalmente, si rischia di aggiungere solo un costo.

 

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