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     n. 18 anno 2008

Mobilità sociale e cambiamento

di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli

Tra i temi attualmente più dibattuti a livello di funzionamento della società, dell'economia e del business management vi è quello della limitata e -secondo l'opinione di molti- del tutto insufficiente "mobilità" nel mondo del lavoro. Da questa evidenza deriva anche quella ridotta "mobilità sociale" che si registra nel nostro Paese e che viene additata da alcuni quale uno dei principali indicatori o ragioni (a seconda del punto di vista che si privilegia) di una società -come la nostra- che non ha assunto il "merito" a driver dello sviluppo e della crescita [si vedano le ricchissime e ampiamente argomentate riflessioni proposte sul punto da Roger Abravanel, Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008]. D'altro canto ci sono nuove e recentissime evidenze empiriche che sembrano confermare questa nostra poca confidenza e predisposizione al cambiamento. I dati forniti dalla Fondazione di Dublino [http://www.eurofound.europa.eu/ e commentati da Cristina Casadei, Regge il mito del posto fisso, Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2008], infatti, ci dicono che se si prende a riferimento la mobilità geografica noi siamo inchiodati su un valore di poco più dell'8% contro un 17% di lavoratori che, nel resto dell'Europa, si sono spostati nel proprio paese o all'estero. Più "stanziali" di noi ci sono paesi come Malta, Lituania, Polonia e Repubblica Slovacca. Se andiamo poi a valutare la mobilità sul lavoro in senso stretto, ossia il tasso di "permanenza nello stesso posto" (la c.d. "tenure" del linguaggio anglosassone), le evidenze disponibili non mutano di direzione e intensità. Siamo sempre collocati tra le ultime posizioni; c'è molta più mobilità in Francia, Germania e Spagna tanto per citare alcune esperienze europee a noi vicine. Il nostro periodo di permanenza in un'azienda supera in media i dodici anni, quando nel Regno Unito questa media è pari a otto anni. E' vero che, come tutti i dati, anche questi vanno presi per quel che sono, nel senso che occorre leggerli e interpretarli all'interno dei diversi contesti cui si riferiscono. L'accento viene posto sulla circostanza, allora, che ci possono essere politiche e strumenti diversi da Paese a Paese che incentivano la mobilità o quanto meno che non la disincentivano. Un esempio per tutti è il livello della regolamentazione presente riguardo ai sistemi disponibili di ammortizzatori sociali o agli strumenti per riqualificare e riprogettare professionalità e carriere. C'è poi da distinguere tra impresa e impresa, a seconda per esempio della "dimensione" della stessa che influenza questo dato e la tendenza a muoversi. Tenute nel dovuto conto queste precisazioni, quello che emerge comunque è che siamo molto più "fermi" degli altri e poco disponibili a cambiare. Siamo poco amanti del nuovo e del diverso e più ancorati alle cose che conosciamo; quindi meno propensi ad esplorare e cercare nuove opportunità. Non è questa la sede per valutare a fondo le implicazioni sul lavoro di queste evidenze, ci limitiamo però ad introdurre un altro elemento che ci viene fornito da alcune ricerche che indagano le "determinanti" la felicità [Antonella Sparvoli, Felicità Quel che conta è cambiare: l'amore, il lavoro, la vita, Corriere della Sera, 23 dicembre 2007]. Secondo questi studi sembrerebbe che la felicità, almeno quella di "stato" e cioè quella legata a singoli eventi, sia associata proprio al cambiamento. In definitiva, cambiare -anche nel lavoro- influisce positivamente sui meccanismi che presiedono alla felicità. Prendiamo tutto "con le pinze", naturalmente, ma questa potrebbe essere una buona notizia per affrontare i cambiamenti e anche la mobilità sul lavoro che ci può essere richiesta o che desideriamo perché stanchi o perché "fermi al palo" da troppo tempo. Allora, sempre con la dovuta cautela, "diamoci una mossa"!

 

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